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domenica 28 aprile 2013

Impressioni in forma poetica dal rifugio di Moulin




Il fiore della mia vita poteva sbocciare da ogni lato
ma un vento aspro ha impedito la crescita dei miei petali
proprio sul lato che voi nel paese riuscivate a vedere
Edgard Lee Master

La valle scende come una gola che è sentiero e letto, scende lungo i massi fino al bordo, rotolando come ventre. Le rocce intorno hanno forme addormentate e guardano in che modo il silenzio sosta col vento e si mette a danzare. E’ anche mio questo voler saltare a tutti i costi oltre il limite della terra che cade. Qui su non c’è forma o petto, solo un sottile graffio che incide nel solco delle ossa il ricordo di una vita dolce come rosa. Non guardo per non volare, e sento insieme la colpa e l’assenza e uno spento suono che sa di liquide zampogne, un suono che mi guarda come il canto dei dannati. Ma la luce qui è soprattutto perdono e forse redenzione per chi col cuore aveva perduto se stesso. La capanna è pietra trafitta di rami e silenzio, perimetro di fiato e silenzio, ombra di muschio e silenzio, e tronchi e spine con la visione di un cavalletto storto che pare piegarsi ad ogni frastuono più forte del tocco di una foglia che cade. Ispirazione e luce e supremo confine dove con la morte è anche bello giocare a nascondino tra i sentieri, mentre gli animali hanno anime parlanti. Il colore che non si può fermare, la luce, oppure entrambi mischiati nella volontà di portare a termine la creazione ininterrotta degli occhi poiché il lampo non viene dalle muse. L’ispirazione è visione, prima, e poi contemplazione infinita sulle prime cose. Da qui in alto la linea dell’orizzonte è troppo ampia da contenere ma guardando e avendo la totalità dello spazio sembra quasi di possedere il tutto e solo allora si sente, come vincolo, l’insufficienza delle norme e la mancanza di leggi. Perché qui la mente di svuota e il bordo dei pensieri è sostituito dall’orrore sacro di un’immensità che non si misura. Mistero tremendo è la luce del sole, così vicina a Dio da apparire oscura, notte oscura tra le querce e i richiami di animali dalle sembianti d’ombre. Tra le pareti che premono sulle tempie, l’afa, l’altezza e l’aria rarefatta come pastello, e il sapersi in bilico tra esistenza e amore, ogni granello di polvere che filtra e si posa velando la vista è come un’epifania incompleta. Colui che vede se stesso. Colui che appare a se stesso disarmato e inerte, mentre come ebete ride del riso saggio dei folli. Bisognerebbe comprendere allora l’idea di santità per violare l’eccesso della concezione. Perché i santi si possono amare e perdonare quando hanno accenni improvvisi di estati e infinite ore di tormento, perché i santi si possono pur pregare dove i loro luoghi diventano eremi e si caricano della vitalità del divino. Ma queste quattro mura circondate dalle radici della montagna non sono cella o convento, non sono passaggio o trionfo, sono solo e soltanto opera e stanchezza. Divina allora è l’illusione e la ricerca, dove la privazione rende oro la bava di una lumaca o lo stormire delle foglie: solo allora l’illuminazione scava ponti tra le pieghe del petto, la mano obbedisce all’idea e l’occhio insegue l’attimo per infiniti attimi. Solo allora il colore può diventare sostanza del creato per confidare alle tele e ai cartoni ciò che non riusciamo a scorgere. “San Giuseppe da Copertino, guardiano di porci, si faceva le ali frequentando la propria maldestrezza e le notti, in preghiera, si guadagnava gli altari della Vergine, a bocca aperta, volando. I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono”: ecco quindi che ogni impacciato concetto è una caduta senz’ali, un volo a precipizio verso l’eccesso che appesantisce le forme, verso il velo che ricopre le mani e i volti e ce li mostra come già cadenti. Le notti passate a implorare sugli altari dei ricordi una costrizione che sapeva d’amore. E banalmente amore doveva essere stata la sola visione che ti aveva scaldato il cuore e l’impressione, e ti aveva portato per i sentieri lenti della forma e dello sguardo. Emilie forse si chiamava il sogno verde dei disperati. Era ricca e sapeva disegnare le rose e le case quando a Parigi le damigelle sceglievano volti africani e i bordelli diventavano filosofici. Emilie era un soffio d’albero lento come un tramonto ma l’eccesso della pittura e del simbolo consuma e annulla, e quando avevi capito la distanza tra lei, te e il mondo era sparita lasciando vuoti densi come universi. Cercata e amata mille volte, mille volte usata per fare l’amore e poi smarrita perché perduta in un’assenza spietata e sola. Ma lo sguardo della donna amata non può che essere egoismo, mentre il colore ottenuto con verdi intensi e rossi di bacche e polveri sottili di sputo e di fango non può non accedere all’anima ed allora l’innamoramento diventa un lungo sogno col quale combattere ogni volta che dal rifugio una goccia scende e si posa sul naso. Ma quando poi ci si annoia della sconfitta, e la nostalgia è più distante della tensione, allora si può abbracciare l’intera vita umana per tramutarla in concetto. Gli ideali, le vite immaginarie, la resistenza e l’assenza: lì era un’immensità di fronte alla quale l’uomo non contava più. I giganti della montagna hanno braccia troppo grandi per maneggiare pennelli; dalla loro cresta vedono due mari, e le albe e i tramonti vorticare come fiamme. Nella distesa invece c’è la pace delle oscurità e della neve, e sentieri d’acqua e foglie dove anche le feci dei pascoli hanno la maestà dei tumuli. Le erbe si mischiano tra loro e fanno essenze senza sfiorarsi; dai picchi ogni aquila è viandante. Il meriggio dei pensieri allora è fuoco quando i raggi picchiano nelle tempie e il cervello pulsa quasi a voler uscire. La poca aria non fa resistenze a quelle forze nere che premono mani ossute sopra le ciglia e ogni giorno è lotta contro demoni meridiani. E la lotta è lunga anche contro la distanza che sulle mani crea incrostazioni di pieghe e solchi mentre il pensiero, alla ricerca dell’oltre, si perde ancora per viaggi e premi di Roma. Il cuore resta inciso al primo stato, forse una volta soltanto e per così pochi millimetri che ogni sussurro spezzerebbe la traccia, mentre l’acido che cola sembra avere essenze di petrolio. Ma qui oli e colle non si legavano con le pietre ed ogni bastoncello colorato nasceva per lento accumulo di frammenti. Qualsiasi azione qui è meditata, ciascun ricordo soppesato sulla bilancia della Croce dove Cristo giudice è severo e dolce come nel volto della Sindone. Quante domande e lacrime da confidare alla barba e quanti sospiri spezzati dal rumore dei cervi e dei lupi. Emilie è un sogno al quale chiedere ogni notte una stella sulla fronte, e un bacio, e poi un conforto prima del grande salto, quello che si fa ad occhi chiusi dall’immaginario picco della pittura per scordarsi dell’esistente. Domani nella battaglia pensa a me, pensa alla rincorsa affannosa sulle trame delle tele dove trasparenti pepli nascondono alla carne il presente ma dove la luce è ultramondana e buca come ruggine lo sguardo. Mentre scendevo ho smarrito gli occhiali. Ho perso la vista o la visione? Per ammirare profondamente le tue polveri colorate bisogna abbandonarsi al pensiero; l’essenza delle cose va oltre l’apparenza sensibile. Per guardare in faccia il mondo o anche solo il frammento d’un quadro c’è bisogno dell’anima e del cuore. L’amore lo si dovrebbe cercare e trovare solo in quest’assenza e non nell’abitudine del rimorso. In città tutto va avanti come se nulla fosse, e anche il tuo volto ora è scavato dal distacco: volto severo di parigina affannata nella ricerca di lampioni ad arco. La città multicolore creata dai lumi che non essendo luce disintegrava nel cubo le forme mentre tra questi passi, durante la resistenza, qualcuno è divenuto realmente luce morendo per amore. Avvenne poco dopo che il rifugio fu bucato dal fulmine, prima che le sue pietre servissero alle trincee tedesche. Il fulmine poi non è mai attratto dal disordine o dal caos, cerca sempre un punto dove scaricare la sua folgore. Se, prima di scendere malato e trafitto, è voluto cadere nel mezzo del tuo metro di vita era perché, in quell’attimo infinito come galassia, ti si dovevano mostrare tutti i colori dell’Iride come li ha concepiti Dio nella purezza dello spazio divino. E quei colori che sfuggono e si perdono sono poi diventati amore. Amore è forse proprio questa pace che non consuma, questo prendersi cura delle miserie altrui. 

Tommaso Evangelista


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