RENATO MARINI
"IL LIRISMO DELLA FORMA"
A CURA DI TOMMASO EVANGELISTA
29 GIUGNO / 11 LUGLIO 2013
Inaugurazione sabato 29 giugno 2013 ore 22.00
OFFICINA SOLARE GALLERY
VIA MARCONI, 2 TERMOLI
Il lirismo della forma
Era di poesia che si aveva bisogno quando nel 1912 Apollinaire aveva impiegato il termine “orphisme” a una conferenza in occasione del Salon della Section d’or. Gli artisti in quel periodo a Parigi si riconoscevano tutti figli di Picasso e Braque ma il loro cubismo analitico, costruito con calcoli e dimostrazioni come un assunto spaziale, limitava la visione. Mancava il colore, la “pittura pura”, e quella voglia di destrutturare il reale senza appellarsi alle regole dell’analisi. Ci pensò soprattutto Robert Delaunay la cui serie delle Finestre simultanee presentava per la prima volta un cubismo dinamico (écartelé, esploso) frutto di forme geometriche “energizzate” dalla luce e dal colore.
Prima di stabilire che la pittura fosse il suo destino, il giovane Paul Klee era stato anche poeta e musicista, si era interessato di letteratura, scriveva versi ed era entrato come violinista nell’Orchestra Sinfonica di Berna. Era il 6 aprile del 1914 quando a Marsiglia Klee, il suo amico Louis Moillet e August Macke si imbarcavano a bordo del Carhage per raggiungere la Tunisia, seguendo il perenne sogno dell’invito al viaggio. L’anno prima aveva tradotto l’articolo «La Lumière» di Delaunay e proprio l’artista francese ebbe su di lui l’influenza maggiore nella scoperta del colore. Solo in Tunisia però tutte le intuizioni e le idee di Delaunay sulla forma e sulla luce presero consapevolezza e Klee cominciò a lavorare direttamente con lo spettro dei colori (complementari e in contrasto) applicato ad un reticolo geometrico serrato e movimentato, come può essere uno sguardo che sfugge alla definizione. Dinamicità della fruizione e rapporto tra energia interiore ed energia luminosa del reale si compenetrano perché se il colore è intuizione ed emozione è anche e soprattutto ricerca teorica sulla visione empirica.
L’arte vive di revival che non sono semplici riproposizioni di movimenti bensì ulteriori e personali indagini su singole modalità di visione. Nei primi vent’anni del Novecento si è sperimentato, con le avanguardie, quasi tutto in relazione alla forma e alla rappresentazione pertanto queste due brevi premesse ci servono per presentare e inquadrare storicamente i nuovi lavori di Renato Marini. Marini da sempre, negli acquerelli e nelle pitture, si è interessato all’utopia della costruzione di uno spazio strutturato in assenza però di contorni di definizione, in mancanza cioè di relazione tra le varie parti dell’opera che acquistano spazialità e distanza solo in virtù della contrapposizione armonica delle masse cromatiche. Se nei precedenti lavori l’immagine ha una forte componente di immaterialità, evanescente ed evocativa, quasi spenta perché leggerissima nelle sfumature, come una visione interrotta, nelle opere presentate in mostra leggiamo un maggior interesse per la forma che si traduce in una riflessione sulla struttura. Tutto sembra partire da alcune prove grafiche degli anni Novanta, dei piccoli formati realizzati a penna dove l’artista geometrizza, conferendole solidità e profondità, la sua personale poetica dello spazio. Complesse strutture regolari vengono smembrate e riassemblate in configurazioni plastiche che ricordano quasi, in piano, i primi collage cubisti. Anni dopo Marini, ricordando tali sperimentazioni, ricerca con il colore di ottenere gli stessi effetti di sovrapposizione e compenetrazione di aree giungendo a una rappresentazione al tempo stesso lirica e rigorosa. E’ proprio su questo sottile equilibrio tra poesia dei piani cromatici e serrata definizione della scena che organizza il proprio mondo facendoci percepire luoghi o ipotesi paesaggistiche “per smontaggio”, solo quindi come ipotesi cromatiche. E’ proprio l’idea dell’ipotesi, che si sostituisce al confine della definizione e che trova nel colore l’essenza dell’espressione, affascina in tali lavori poiché i pochi attimi di reale che percepiamo (una finestra, un colonnato, delle case in lontananza) non sono altro che una delle tante infinite possibilità compositive che forma e colore possono strutturare, anche inconsciamente e per engrammi. Il colore dato a corpo e l’assenza di linee di contorno rendono ogni profilo incastonato sul successivo, con il risultato che la profondità viene ad annullarsi facendo emergere un accumulo, ora dinamico ora immoto, di costituenti. L’elemento cromatico, in tutto ciò, è sempre il punto di partenza per approfondire un personale mondo creativo in composizioni astratte, basate sulla realizzazione di tasselli geometrici di colore in cui si possono riconoscere, in sintesi, le forme di elementi naturali, geometrici o urbanistici. Ma non bisogna parlare di pura astrazione bensì di una figurazione complementaria antinaturalistica che usa la sintesi come principale poetica. «Io sono astratto con qualche ricordo» diceva Klee di sé stesso. E’ in effetti questa può essere una giusta espressione per descrivere il concetto di astrattismo di Marini, così fortemente connesso alla realtà che determina una reazione emotiva capace di rielaborare e filtrare gli oggetti fino alla loro essenza, fino a farli diventare forme nuove. Le immagini ci vengono suggerite attraverso le associazione che hanno con le strutture contigue ma sono anche espressione di un impulso, quasi sonoro, che proviene dall’interno delle cose. Una visione come scavo lirico nella forma e nel colore nel tentativo di relazionare le figure tra di loro e creare così il moto dal silenzio della sintesi.
Tommaso Evangelista
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