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lunedì 19 settembre 2011

Perdita del centro - Gianmaria De Lisio all'Officina Solare



Perdita del centro, ovvero fuga dal labirinto.

“Ossessivamente sogno di un labirinto piccolo, pulito,
al cui centro c’è un’anfora che ho quasi toccato con le mani,
che ho visto con i miei occhi, ma le strade erano così contorte, così confuse,
che una cosa mi apparve chiara: sarei morto prima di arrivarci.”
(L’Aleph, J.L. Borges)


Per perdita di centro (titolo preso in prestito dal noto saggio di Hans Sedlmayr) s’intende quella rinuncia ai punti di riferimento fondamentali che per secoli hanno fatto da perno all’arte ed al pensiero in generale. La perdita è stata causata dalla volontà da parte degli artisti di esplorare nuove modalità di espressione mai sperimentate prima con conseguente liberazione dai canoni. La storia dell'arte documenta storicamente la perdita del "centro" come perdita di Dio prima, e dell'uomo poi, fino ad arrivare alla perdita di percezione della realtà sostituita da un’eccessiva invadenza del reale sottoforma di operazioni performative e relazionali, in una sorta di nichilismo gaio, senza angoscia. Tutto ciò è sintomo di una crisi profonda dell'uomo. L’uomo nella società dell’immagine e dello spettacolo vive stordito da una moltitudine di stimoli visuali; l’eclisse dell’opera d’arte avviene pertanto in un proliferare di forme e in questo caos visivo perdersi nell’eccesso non è cosa difficile. Lo smarrimento può avvenire sia per mancanza di immagini compiute e positive sia per sovrabbondanza di impulsi comunicativi. In questo clima di totale relativismo iconico solo ai segnali (stradali, di pericolo, di prescrizione) conferiamo autorevolezza in quanto trasmettono un’informazione, il più delle volte univoca, che accettiamo. L’opera d’arte non dovrebbe fungere da “dispositivo virale” che amplifica il senso delle cose, spesso alterandolo o sopprimendolo, bensì dovrebbe creare “avvisi” attraverso il trasferimento di informazioni. All’ultrasenso, causato dalla perdita del centro, dovrebbe sostituirsi il messaggio inserito ora in un labirinto plurisensoriale. Nell’opera di Gianmaria De Lisio assistiamo proprio a questo viaggio verso un punto mediano: se avanzare progressivamente verso il centro significa approdare ad un ordine delle cose, conquistare la chiarezza, il viaggio per giungerci diventa un lungo transito alla ricerca di indicazioni. Viaggio-odissea che diventa mitico e che produce, come scarti delle scelte, opere che si possono apprezzare solo osservandole in continuità ed esclusivamente come tracce o interferenze del percorso. Nel labirinto del mondo la facoltà di scelta è metafora quindi della libertà spirituale dell’artista mentre le sue preferenze diventano messaggi che rinviano all’immaginario individuale. Ma proprio perché questo immaginario personale è frutto dello spostamento nel reale, è frutto del “durante”, può diventare immaginario collettivo prospettando soluzioni e vie di uscita. Il corpo pensante immerso in un non-luogo globalizzato fatto di informazioni abbandona così il reale e ritorna all’archetipo, al messaggio minimale, alla forma chiusa. La perdita del centro non avviene poiché viviamo in una rete infinita, in un rizoma, bensì perché al frammento si è sostituita la volontà di rappresentare e ricostruire il tutto (Ricostruzione futuristica dell’universo, 1915) smarrendo qualsiasi valore. Ritornando a Sedlmayr infatti se “l’uomo ha perduto il suo centro, anche l’arte si allontana quindi dal centro.(…). L’arte diviene eccentrica in tutta l’estensione del termine. L’uomo vuole uscire dall’arte che per sua natura costituisce il centro fra lo spirito e i sensi. L’arte si sforza di uscire dalla stessa arte nella quale essa trova il medesimo scarso appagamento che l’uomo trova nell’uomo. Nel tendere verso una super arte essa precipita spesso in un genere sub –artistico. L’arte si allontana dall’uomo, dall’umanità e dalla giusta misura. Tutti questi sintomi sono l’espressione simbolica di analoghe tendenze che esistono, in genere, nell’uomo. E non è solo nell’arte che l’uomo vuole allontanarsi dal centro e dall’uomo stesso. I fenomeni dell’arte moderna illuminano e spiegano molto più di ogni altra manifestazione umana tali tendenze.(…). Nelle forme moderne della vita e dell’arte,” si riconosce allora “l’espressione di un profondo antiumanismo.”(Sedlmayr, 1967, pp.195-196). La perdita del centro è perdita della personalità, del cuore, della coscienza, delle informazioni vitali, dei messaggi, dell’etica. Ecco perché risulta interessante il percorso artistico di De Lisio il quale parte dal disorientamento per ricercare le radici. E se queste radici sono ormai distrutte e alterate non rimane che una loro traccia. I cartelli di pericolo e i bersagli, dai ripetitivi colori giallo-neri, indicano l’assurdo della nostra società che tende all’autodistruzione ma sono anche segni comunicativi che codificano un’informazione e che si sostituiscono ad un’arte ambientale e virale. Anche i dittici diventano così dei testi in quanto raccontano di un percorso e dell’esplorazione personale del mondo in ambienti che creano associazioni di immagini apparentemente oniriche. Ciò che si potrebbe associare al sogno, o ad una voglia di evasione dal reale, infatti, non è altro che rigorosa analisi esterna che produce oggetti (organi, pesci, spazi, forme biologiche) come rebus da decifrare. Ma questi rebus, in quanto potenzialmente decifrabili, non sono altro che stringhe di una Rete-labirinto che è non-luogo per eccellenza ma anche esperienza. Se, come asserisce Eco, “il labirinto è un modello astratto della congetturalità”(Eco, 1983, p. 21) allora il discorso può evolversi dalla vertigine dello smarrimento alla ricerca delle informazioni vitali utili per ritornare nel centro. E’ un percorso complesso, quasi certamente votato alla sconfitta in assenza di una legge morale esterna forte, ma ci pare positivo che qualcuno voglia compierlo e trasferirlo in forma artistica. Le angosce e le paure iniziali, determinate dal fatto di non conoscere la via, spariscono lentamente sostituite dalle informazioni recuperate nella ricerca e proprio le due piccole installazioni ci appaiono, alla fine, come piccole tracce di speranza. La prima Quando ho capito cos’è la lucidità è (parole dello stesso autore) “una riflessione sul rapporto tra sogno e realtà e su come spesso la realtà si vive come in un sogno” con questa coperta che cela una serie di oggetti (ritrovati?). La seconda, invece, dal titolo L’importanza delle relazioni, interessante in quanto riflessione sulla non affidabilità a volte delle informazioni, è una piramide di sabbia con un barattolo sopra; il barattolo è a testa in giù così che sembra che la sabbia venga tutta dal barattolo. In realtà la piramide è formata con la sabbia di due barattoli. In questa proposta teorica ed espositiva, quindi, trovano spazio anche le sculture di Massimo Traino in biblico tra astrazione e figurazione in quanto lavorano proprio sul confine della forma. L’angoscia della conformazione, la refrattarietà della materia, l’inquietudine dell’ispirazione, la ricerca di una poetica minimale e sospesa, la negazione dell’individualità che comporta l’emergere esclusivo della massa, sono tutte caratteristiche di questi lavori che legano la perdita del centro con la perdita della struttura in una dialettica tra interno ed esterno. E a riguardo vorrei concludere con questa frase di Haruki Marakami “Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore”. 
Tommaso EVANGELISTA

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