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venerdì 25 marzo 2011

Arte e regioni - Il Molise in mostra

In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Roma ospita la mostra “Regioni e Testimonianze d’Italia”, che verrà realizzata nei luoghi del giubileo del 1911 a Roma: il Complesso del Vittoriano, Palazzo di Giustizia, Valle Giulia, Castel Sant’Angelo, e l’Aeroporto Leonardo da Vinci, inaugurato nel 1961. 

In tale occasione, nel Complesso Monumentale del Vittoriano il 31 marzo 2011 alle 17.30, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, verrà inaugurata la mostra “Arte e Regioni” dove ogni regione presenterà quattro opere d’arte relative a quattro periodi storici differenti. 

Hanno dato la loro adesione le Regioni: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto (Consiglio Regionale) e Provincia Autonoma di Trento, nonché la Provincia di Roma. Cura e consulenza storica dell’esposizione sono di Lucio Villari, Professore di storia contemporanea nell’Università degli Studi Roma Tre. Curatore della mostra “Arte e Regioni” ospitata presso il Salone Centrale del Complesso del Vittoriano è Louis Godart, Consigliere per la conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica Italiana. 

La mostra si propone di raccogliere le testimonianze della produzione artistica dell’Italia dal 1861 ad oggi attraverso l’esposizione di quattro opere d’arte per ciascuna Regione. Per la Regione Molise saranno in mostra le opere: Partenope di Arnaldo de Lisio; Il ritorno del legionario, di Marcello Scarano; Giraffa artificiale, 1972, di Gino Marotta; Il bordo, 2011, di Paolo Borrelli, Fausto Colavecchia, Dante Gentile Lorusso e Luigi Grandillo

Organizzazione generale e realizzazione:
COMUNICARE ORGANIZZANDO, Roma

Catalogo: Gangemi Editore

La mostra prevede l’ingresso gratuito e resterà aperta al pubblico fino al 3 luglio 2011.

Info:
Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere - Roma
tel. 06 3225380 - 06 6780363 - 06 6780664
museo.vittoriano1@tiscali.it

domenica 13 marzo 2011

Ancora uniti - Foto dal vernissage














La legge del due per cento e il decorum in Molise

In Italia esiste una norma chiamata Legge 29 Luglio 1949, N.717, meglio conosciuta come “legge Bottai” o del “due per cento”. Questa norma, mai decaduta ma sistematicamente ignorata per assenza di sanzioni, regola e assicura risorse per l’abbellimento delle opere pubbliche. La legge, nata dall’appassionata attività del ministro in favore dell’arte contemporanea e degli artisti, allora organizzati nel Sindacato Belle Arti e poi nella Corporazione delle Professioni e delle Arti, nasce perché “lo Stato si preoccupa di far sì che l’operare artistico sia serio, concreto, produttivo e vuole che le condizioni di vita degli artisti siano tali da consentire loro l’indispensabile serenità di lavoro”. E’ una legge, lo si legge anche nel titolo, per l’arte negli edifici pubblici, e dovrebbe servire per assicurare alle grandi opere il giusto apparato decorativo e per prevedere, anche nelle piccole costruzioni, opere adeguate in quanto il due per cento della spesa complessiva dovrebbe essere assicurato per la commissione di lavori artistici. Ultimamente in Molise si è riparlato di questa legge in relazione alla creazione dell’auspicata galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea; lo stesso governatore Iorio, infatti, proprio alla presentazione del libro di Dante Lorusso, “Attraversamenti”, ha ribadito la volontà della giunta di realizzare questa importante sede espositiva augurandosi, inoltre, il rispetto della suddetta norma per i nuovi edifici. Niente di più giusto. In effetti però si lamentano anche in regione la mancanza di bandi di concorso, l’assenza di commissioni serie e rigorose e di apparati sanzionatori adeguati, nonché, come spesso accade, la difficoltà a verificare l’effettiva applicazione della norma. Norma che ha un ruolo e una finalità di estrema importanza per la promozione dell’arte e dell’architettura in quanto arma efficace di qualificazione o riqualificazione. Naturalmente sorge il problema di quale arte sia più giusto affidare alle sedi pubbliche, se le solite creazioni astratte e inconsistenti di significati, il più delle volte nulli, o opere di più grande respiro, magari figurative, che propongano, come nella più classica tradizione dei palazzi rinascimentali e barocchi, esempi di virtù civili quali monito per i governanti ed esempio per il popolo. Il concetto alla base di questa legge è il “decorum”, teoria che nella trattatistica rinascimentale regolava il rapporto tra decorazione e funzione degli ambienti e, per esteso, circostanze, personaggi, ruoli sociali. Si potrebbe far molto: risollevare per esempio le maestranze artigiane che stanno sparendo, stimolare un’arte autenticamente regionale e non per forza legata a stereotipi contemporanei, iniziare decorazioni o ultimarle (penso in particolare alla cattedrale di Bojano), stimolare, insomma, una vera e propria rinascita delle arti che farebbe del Molise un esempio per tutta la nazione.

su Il Quotidiano del Molise di sabato 12 febbraio 2010.

mercoledì 9 marzo 2011

Ancora uniti - mostra d'arte contemporanea

Testo critico: 

ANCORAUNITI…malgradotutto 

"Come l'Arte, della quale è un ramo, la Pittura si nutre della linfa sociale; come la Poesia, essa esprime, lo voglia o no, qualche cosa della vita di tutti, delle credenze di tutti, dei presentimenti di tutti", scriveva Giuseppe Mazzini nel suo saggio La pittura moderna italiana, pubblicato per la prima volta nel 1841 nella rivista londinese London and Westminster Review. Mazzini, teorico dell’Unità d’Italia, si dimostrava anche attento indagatore delle espressioni dell’epoca, accorto soprattutto, però, a cogliere nelle opere l’Ideale, ovvero quella componente slegata dalla storia e dalla cultura che determinava da sola la sussistenza dell’opera come garante di verità. Questo breve accenno di letteratura artistica non può mancare in una mostra collettiva che vuole far omaggio ai 150 della nostra nazione, quantomeno per mettere a fuoco che tipo di arte era ritenuta opportuna nel periodo risorgimentale, un’arte di storia e di ideali, ma anche un’arte del potere e della celebrazione, se non addirittura della propaganda. Vorrei soffermarmi allora sul concetto di Unità, e sembra quasi una contraddizione data la diversità di opere e di artisti presenti in mostra. L’unità è sempre stata un concetto caro al mondo artistico, basti pensare alle famose dispute settecentesche sull’unità delle arti” (Ut pictura poesis) e ai tentativi, soprattutto barocchi, di fondere insieme pittura, scultura, architettura, realizzando una sintesi visiva di incredibile fascino. E se ci pensiamo bene, e guardiamo alla Roma barocca controriformata, tale unità, anche geografica, tanto bramata nell’ottocento, era già avvenuta, artisticamente, nel segno della Chiesa poiché i cantieri dell’Urbe brulicavano di maestranze provenienti da tutta la penisola, a differenza di realtà, come Bologna e Firenze, legate a scuole locali. La forma barocca è anche il frutto dell’unità artistica di tante menti eccelse. Per onestà intellettuale, quindi, parlando dei 150 anni, occorrerebbe distinguere l’Unità dal Risorgimento, considerando la prima un fenomeno di natura politica e il secondo di natura culturale, in parte criticabile in quanto venne a frantumare millenni di storia e di cultura giustificando l’azione correttiva sulla società con la pur sacrosanta idea dell’Italia unita. La giusta idea dello stato unico diventava motivo per disfare una cultura che aveva trovato già di per se l’unità, soprattutto attraverso e con le arti. Lo scrittore russo Fedor Michajlovic Dostoevskij, dopo aver affermato che i popoli italiani vissuti in questi duemila anni erano consapevoli di essere portatori di un’idea universale, dall’arte alla scienza, che aveva un significato mondiale, così ebbe amaramente a scrivere: “ma che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del su essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”. Parole condivisibili se si pensa alla celeberrima frase di Massimo D’Azeglio “L’Italia è fatta, ora facciamo gli italiani” e alla mancata soluzione della “questione meridionale”, dovuta a interessi che hanno spesse volte lucrato sui problemi, invece di affrontarli e risolverli. L’arte, in tutto ciò, ultimata la stagione risorgimentale, non ha certo aiutato il popolo in questo cammino tanto che oggi siamo arrivati ad una condizione di assoluto disinteresse verso la cultura, l’elemento che più di altri dovrebbe concorrere alla concordia, o quantomeno alla nascita di un sentimento di vicinanza che ancora manca. E il problema non è solo nazionale ma anche regionale. Di certo non sarà di aiuto il disorganico e caotico Padiglione Italia della Biennale curato da Vittorio Sgarbi per le celebrazioni; resterà, invece, quale simbolo di questa decadenza della forma e dei valori l’opera di Pistoletto realizzata esplicitamente per l’occasione, “Stracci d’Italia”, risposta si alla tendenza iconoclasta negli anni settanta, ma anche metafora dell’impoverimento di una Nazione. Arte povera appunto. Con queste impressioni non si vuole minimamente sminuire l’evento, importantissimo e che dovrebbe essere recepito da tutti, quanto problematizzare il tempo e la storia. Riflettere sull’Unità come concetto estetico e di valore dovrebbe mettere il fruitore in una condizione diversa, come di chi non stia osservando un’esposizione didascalica e di vuota glorificazione, quanto un racconto sentito e complesso. 

La mostra nel suo insieme cerca, attraverso la lente dell’arte contemporanea, un passato comune mentre gli artisti ricercano questa meta per strade diverse, riflettendo sui valori fondamentali del nostro essere nella società e nel tempo. Nell’odierna prospettiva multietnica e globalizzata dove ogni movimento produce se stesso e il suo contrario e anche il concetto di nazione sembra venir a mancare, il fatto di realizzare una mostra incentrata sul tema dell’Unità è un fattore positivo in quanto rifiuta l’idea nomadica di creatività, focalizzando lo sguardo sul locale. Non è chiusura o ripiegamento su se stessi ma calibrata riflessione sul presente, un presente che festeggia e celebra l’unità nazionale la quale, non per questo, deve essere accettata come dogma da esaltare. L’unità non deve essere la conclusione del processo, diventando pertanto chiusura, ma deve spingere a riflessioni trasversali che portino a problematiche nuove, non per forza condivise. La dialettica dell’unità è la maggior garanzia alla rinascita delle arti, o quantomeno al nostro tentativo di restare vicini…malgrado tutto. 

(Boris BROLLO,Tommaso EVANGELISTA)


Enti Promotori: Assessorato alla Cultura del Comune di Termoli, Officina Solare
Luogo: Castello Svevo di Termoli
Data: 12/31 marzo 2011
Orario di apertura: 20.00 /22.00 tutti i giorni compreso festivi
Organizzazione: Lucia Di Miceli
A cura di: Boris Brollo e Tommaso Evangelista
Inaugurazione: sabato 12 marzo 2011, ore 18.30
Interventi di presentazione: Michele Cocomazzi (Assessore alla Cultura del Comune di Termoli), Boris Brollo e Tommaso Evangelista (Curatori) e Nino Barone (Officina Solare) 
Info: 329.4217383


lunedì 7 marzo 2011

Presentazione 1° Quaderno dell'Officina Solare 1.2010


PRESENTAZIONE DEL QUADERNO DELL'OFFICINA SOLARE 1.2010

Pubblicazione che contiene tutti i testi critici di presentazione alle mostre allestite nellOfficina Solare Gallery

scritti dal Critico d'Arte Tommaso Evangelista, corredata da immagini a colori delle opere esposte.

Presenterà il quaderno di studi artistici il dott. Tommaso Evangelista.

Ai presenti verrà data in omaggio una copia della pubblicazione.

Giovedì 10 marzo 2010 ore 18.30

Officina Solare Gallery Termoli

domenica 6 marzo 2011

Circa la conclusione del ciclo pittorico della cattedrale di Bojano.

Stanno giungendo a conclusione i lavori previsti e finanziati per la cattedrale di Bojano. Tra pochi mesi sarà completata la decorazione dell’intera navata e, una volta tolti i ponteggi, si potrà ammirare il ciclo nel suo insieme. Gioia per gli occhi e per l’anima e impresa della quale andar fieri in quanto unica in Europa. Confortante è sapere il Molise culla di un rinnovamento delle arti sacre contro tendenze troppo progressiste che, volutamente ignare della liturgia, adottano l’informale e l’astratto come metro contemporaneo di bellezza. I primi a non esserne convinti sono i fedeli che si ritrovano chiese prive di forma e immagini prive di decoro. Cominciamo col dire che la cattedrale di Bojano è un unicum e che il suo ciclo pittorico, cominciato undici anni orsono, è un’impresa notevole: circa 170 figure, un’enorme superficie dipinta con storie dell’Antico e Nuovo Testamento, Profeti e Sibille, il Giudizio Universale, l’incredibile cupola col suo abisso di Luce. Ogni elemento rispecchia pienamente quel concetto di decorum tanto caro agli artisti rinascimentali ed è proprio a loro che bisogna guardare per apprezzare al meglio l’opera. Dalla forma alla configurazione delle storie, dall’attuazione di un “realismo moderato” all’organizzazione degli episodi, dalla messa in opera al recupero della tecnica, ogni impressione che ne possiamo ricavare ha i suoi riferimenti nell’arte antica pur configurandosi con lineamenti moderni. Non sarebbe allora eccessivo, pur con dovuti distinguo, paragonare il ciclo agli affreschi di Giotto agli Scrovegni o alle storie presenti nella Cappella Sistina. Ebbene, che sarebbe la Cappella senza il Giudizio? Forse perderebbe metà del suo fascino priva di quell’astrattezza spaziale del cielo sconfinato che sembra incombere sui fedeli. Proprio la conclusione (teologica e materiale) del ciclo, all’inizio non prevista, ha fatto si che la Cappella Sistina si configurasse come scrigno completo dell’arte e della fede. Quel senso di horror vacui e di spaesamento che si prova all’interno, infatti, è dato in particolare dall’incredibile scena del Giudizio e dall’illusione di uno spazio infinito che annulla la superficie, in perfetta unità con i restanti affreschi. Non si sarebbe avuto lo stesso effetto con una parete vuota. La completezza di un’opera o di un ciclo, oltre a presentare un discorso completo, è garanzia allora della sua fortuna; completezza, inoltre, è elemento di unicità poiché rari sono nella storia dell’arte cicli completi di uno stesso autore. In parole povere il ciclo della cattedrale di Bojano andrebbe portato completamente a termine poiché resterebbe al Molise un’opera unica e di grande valore, sulla quale puntare tra l’altro per incentivare il turismo sia religioso che culturale. E il ciclo andrebbe terminato in quanto sarebbe più facile e meno dispendioso aggiungere all’esistente quelle parti che mancano alla conclusione che realizzare, in un futuro, un nuovo ciclo. Non bisognerebbe, insomma, perdere l’opportunità di portare fino in fondo un’opera che difficilmente sarebbe ricreata altrove. Cosa aggiungere? In effetti visto così il ciclo appare completo ma ci sarebbero alcune parti che, se realizzate, eleverebbero un’impresa già di per se eccelsa. Parlo della decorazione del transetto e del catino absidale dove, una teoria di angeli sullo sfondo di un cielo azzurro oltre a ricollegarsi allo sfondato della cupola sarebbe la giusta conclusione, anche visiva, della navata. Ci sarebbero inoltre i due riquadri sotto l’Ultima Cena e, volendo osare, ci sarebbe la realizzazione in monocromo di una finta architettura che ingabbierebbe tutte le scene della volta. Quest’ultima impresa, un’utopia ai miei occhi, in fondo non sarebbe neanche troppo dispendiosa mentre donerebbe unità all’intero edificio, magnificenza agli occhi dei fedeli. E proprio col concetto di magnificenza vorrei concludere questa breve apologia della conclusione del ciclo. Con la rinascita delle arti nel Rinascimento la magnificenza, già teorizzata da Vitruvio per l’architettura classica, riaffiora quale elemento delle opere e assume, in virtù del fenomeno del mecenatismo, una forte valenza politica. La magnificenza è espressione della rinascita della cultura e caratteristica delle grandi opere. In un’epoca di spreco di denaro pubblico per opere faraoniche e irrealizzabili, allora, bisognerebbe riprendere il trattato di Giovanni Pontano, De magnificentia, circa l’utilizzo del denaro e la sua utilità per la realizzazione di opere che facciano grande la comunità. L’arte sacra si giova anche dell’etica civica dei suoi committenti.


Tommaso Evangelista su Il Quotidiano del Molise di Domenica 6 marzo 2011

Minimalanimal - Foto dal vernissage













Foto dal vernissage della mostra "Minimalanimal" di Elio Franceschelli a Palazzo Orlando, Isernia.

sabato 5 marzo 2011

Minimalanimal. La personale di Elio Franceschelli a Palazzo Orlando

Si inaugura oggi presso la prestigiosa sede di Palazzo Orlando, alle ore 18, la mostra Minimalanimal del’artista isernino Elio Franceschelli. L’esposizione, che ha come sottotitolo “studio out leggera retrospettiva 1990-2010”, è l’omaggio dell’artista alla sua città e momento di riflessione, o anche ricapitolazione, sugli ultimi suoi vent’anni di carriera. In questo senso va recepito un allestimento che non punta tanto allo schematismo, ma cerca la sorpresa, lo stupore che deriva dall’abbondanza di opere esposte sui tre piani del palazzo. Un vero e proprio “studio fuori”, con quella sensazione di work in progress che solo i famosi loft newyorkesi sanno trasmettere ma che Elio, che tra l’altro in un loft a New York vi ha lavorato, è riuscito a restituire. Effetto spaesante, dunque, ma anche tanta concretezza poiché, di parete in parete, riusciamo a renderci conto del lavoro dell’artista e della sua evoluzione attraverso l’ultimo ventennio. Il risultato è un’autentica sorpresa, o una scoperta per chi non conoscesse ancora le sue opere. Elio è, probabilmente, tra i più innovativi artisti della regione e le sue ricerche nel campo dell’arte contemporanea non hanno nulla da invidiare al panorama internazionale. Tra i primissimi studi segnalo la serie “estensioni”, riflessione sul concetto di spazio e di luogo, con le opere che diventano filtro tra reale e percepito. Seguono i lavori sui sacchi e sulle tele che, oltre a richiamare naturalmente le ricerche di Burri, sono originali in quanto indagano la “mediterraneità” della materia e del supporto che, essendo materiale umile e legato al lavoro e alla fatica, si presta a rendere, per analogia, l’immagine di un sud vitale e caldo. Anche quando sui sacchi compaiono delle scritte, lontanamente pop, il gesto e la parola sono sempre in relazione con l’uomo e il suo vissuto. Si arriva così alla sua ricerca può originale e personale, quella sui cosiddetti olii combusti, intrapresa a partire dal 1994. Oil on water, ovvero l’unione-scontro tra tecnologia e natura, nord e sud del mondo, freddo-caldo. In queste vere e proprie installazioni, a volte serializzate altre volte isolate, in recipienti di plexiglass viene inserito dell’olio di motore usato e dell’acqua colorata; l’olio tende a salire creando di fatto una divisione netta con l’elemento dell’acqua. Abbiamo così dei neri profondissimi e dei colori “acquatici” e caldi che vi si contrappongono, poiché ciò che tenta l’artista è la ricerca di quell’equilibrio che l’uomo tecnologico ha interrotto. In questa linea di ricerca vanno collocati anche gli “Oblò”, i “Collettori” e le “Mask” che di fatto è la sua ultima ricerca in perfetta continuità con il discorso sull’olio, in quanto le mascherine sono intese come ultima forma di resistenza alla sua combustione. Arte sociale, quindi, in un discorso concettuale ed elegantissimo, dove per una volta il rapporto squilibrato dell’essere umano con il mondo sembra essere invertito a favore di un’unità di fondo e di una speranza. La bruciatura e combustione dell’olio permette il progresso ma genera scompenso e danno in quanto il progresso punta sempre in una direzione, marginalizzando il resto del mondo; l’olio è metafora di tutto ciò ma, nelle mani dell’artista, diventa elemento di riequilinri, denso di significati. Minimale e immediata la mostra, ricchissima di opere, presenta tanti altri spunti: il tema del riuso, il tentativo dell’artista contro l’annichilimento tecnocratico, la ricerca della meditterraneità, l’analisi quasi scientifica della materia, il prodotto-merce-scarto inserito in un’ottica estetica. La mostra, patrocinata dal comune di Isernia e dall’assessorato alla cultura, resterà aperta per un mese tutti i giorni dalle 11 alle 13 e dalle 17 alle 20. Saranno previsti convegni e incontri-visite con le scolaresche che avranno modo di fruire, per una volta, di una mostra dal respiro internazionale e con tanti contenuti sui quali riflettere.
Tommaso Evangelista





giovedì 3 marzo 2011

Nicola Dusi Gobbetti - Forma e inconscio

Entrare nello studio d’arte di Nicola Dusi a Colli al Volturno è come addentrarsi in un luogo atemporale riempito di arte e di ricordi, una sorta di Wunderkammer dall’inconfondibile odore di antico dove si trovano, quasi in simbiosi, oggetti d’antiquariato, opere antiche e tele moderne. In un angolo, nella penombra, una scrivania stracoma di libri e pastelli, fogli sparsi e schizzi, prove di colore e piccoli bozzetti. Li ci sediamo per una lunga chiacchierata. Nato a Mantova nel 1954, Dusi si forma presso l’Istituto Statale d’Arte di Mantova e prosegue gli studi all’Università di Parma, presso la facoltà di Storia dell’Arte, ottenendo in seguito, negli anni ’90, l’iscrizione all’Albo dei Periti ed Esperti d’Arte. 

L’ambiente mantovano di quegli anni, con influssi da Milano, dalle Biennali di Venezia, dall’Austria e dalla Francia, fu di certo un ambiente stimolante. Cosa lo ha spinto verso la pratica pittorica e cosa ha segnato maggiormente la sua formazione artistica? 

La famiglia del centauro
Mantova a quel tempo era una città in fermento; da una parte si respirava la tranquilla vita di provincia e dall’altra, invece, vi era un forte entusiasmo artistico con accenti di novità. Mio padre, Carlo Dusi, anch’egli affermato artista, già dal dopoguerra con altri colleghi aveva collaborato con la prima galleria del sindacato artisti. Si lavorava sul recupero del cubismo sintetico inteso come scomposizione delle forme e non dei piani, ma vi era anche un certo recupero del realismo in chiave socialista. Con lui, sin da piccolo, ho cominciato ad appassionarmi di arte girando per una miriade di mostre. Negli anni della mia giovinezza, invece, si cominciavano a respirare i primi odori di avanguardia. Intorno al ’65 arrivano le prime novità della pop art americana e viene aperta un’importante galleria nella piazza centrale di Mantova, vicino al palazzo della Ragione. Era situata in un’antichissima prigione medievale e si chiamava l’Inferriata. Dalla piazza la gente poteva osservare le opere all’interno. Vi si esponeva pittura, scultura, poesia visiva; si respirava un’aria internazionale e i cataloghi che vi si stampavano erano sempre molto aggiornati. 

Suo padre Carlo è stato un importante esponente del gruppo “Corrente”, presente alla Biennale di Venezia del ’48, tra le più significative del dopoguerra, e alla Collettiva al salone delle Nazioni di Parigi nell’83; che rapporto vi era con lui e quale stimoli e influenze, invece, ha ricevuto rispettivamente dall’Istituto Statale d’Arte e dall’Università? 

Mio padre è stato il mio primo maestro. Era una persona severa ma giusta; odiava le persone che si vantavano ed i vari nepotismi; non accettava compromessi e per questo fu anche penalizzato. Quando da giovane mi è capitato di esporre insieme a lui figuravo sempre come allievo e mai come figlio, col nome d’arte di Nicola Gobetti. Qualche critico, suppongo, se ne fosse accorto poiché, a livello figurativo, ho sempre cercato di ispirarmi alle sue ricerche e adesso, più che prima, tento di seguire le sue orme, in particolare ragionando sulla scomposizione dall’interno della figura umana, cercando anche nuove soluzioni. L’istituto Statale, debbo dire, è stata un’esperienza determinante per la mia formazione artistica; molti dei docenti avevano esposto e esponevano alle Biennali ma in classe erano dei perfetti accademici e puntavano molto sulla tecnica. Ricordo come ci facessero disegnare con pennarelli al posto delle matite, appunto per correggere ed evitare le incertezze. L’Università, infine, mi ha dato un solido bagaglio storico e teorico; vi insegnava il professore Arturo Quintavalle, tra i più grandi storici dell’arte italiani, e le sue lezioni erano interessantissime e aggiornate. 

Ha incominciato presto ad esporre e che strada perseguivano le sue prime ricerche? 

Icaro in volo
Ho partecipato alla mia prima collettiva a 16 anni a Venezia, con un gruppo di artisti mantovani; ero il più giovane. La mia prima mostra personale è stata nel 1974 alla galleria La Torre di Mantova mente nel 1978 sono stato premiato nella Sala della Stampa di Milano nell’ambito del prestigioso Concorso Internazionale d’Arte Contemporanea Torre d’Ansperto, con in giuria Sassu e Kodra. Riguardo ai miei inizi mi rifacevo ad elementi e stilemi arcaici, che vagamente richiamavano iconografie delle popolazioni sudamericane o certe trame delle stoffe andine. Realizzavo delle figure su tavole riciclate, ad olio e smalto, quasi dei feticci primitivi, oppure, in una sorta di elementare pratica litografica, riportavo su una tela i colori che stendevo su un altro supporto ottenendo pertanto un negativo delle linee. 

Osservando questi primi lavori noto un forte ricorso alla geometrizzazione delle forme ma anche un certo espressionismo che fa si che le immagini emergano quasi da una sorta di inconscio collettivo; nei lavori successivi, invece, si percepisce una maggior libertà nel tratto e nella raffigurazione. Come si è evoluto il suo stile? 

Il critico Benvenuto Guerra parlava, circa i miei primi lavori, del ripescaggio degli archetipi che abbiamo nell’inconscio in virtù di una sorta di istintiva regressione. Successivamente ho cominciato a distruggere la geometria recuperando, contemporaneamente, la materia. Colpito dalla pittura americana e dall’espressionismo astratto ho lavorato con maggior libertà esecutiva tenendo sempre ben presente la figura umana, il corpo e la sua scomposizione. Il segreto nell’arte, e lo diceva spesso mio padre, non è dipingere ma sapere quando fermarsi. Naturalmente poi conta la padronanza della tecnica e della figurazione. Gli americani, dai quali pur sono attratto, non hanno alle spalle l’arte classica o il Rinascimento; la loro è un’arte vergine e ingenua. E’ impensabile invece per un artista europeo fare a meno delle proprie origini, dello stratificarsi di stili e periodi. In futuro voglio continuare su questa linea di ricerca, tra materia, forma e sua scomposizione. 

A proposito di origini quali artisti del passato l’hanno colpita o ispirata e, contemporaneamente, da quali artisti moderni ha tratto influenze e stimoli? 

Del passato ho sempre adorato l’arte veneta e la preponderanza dei valori tonali su quelli timbrici; mi riferisco in particolare a Giorgione e Giovanni Bellini. Del ‘400 apprezzo la staticità delle forme, la linea di contorno e il colore irreale in funzione esclusivamente di se stesso e non della figura, tutti valori che si perderanno nel manierismo e saranno riscoperti solo agli inizi del ‘900. Di moderni, invece, naturalmente amo Picasso, poiché la sua arte ha una risposta per ogni problema formale e poi Mirò e Klee, che stimo particolarmente. I suoi paesaggi sono paesaggi interni, dell’anima, oscuri e luminosi; e poi c’è l’astrattismo americano e italiano con Capogrossi e Vedova, considerato sempre un maestro. La discussione sarebbe ancora lunga e le domande ancora molte; ripensando ad un paio di libri usciti fuori dalla nostra conversazione (Balzac e Yung) posso affermare come l’arte di Dusi si muova in perfetta armonia tra materia e inconscio, ricerca onirica e ricerca formale. Nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, il protagonista, Frenhofer, impiega una vita a lavorare su un ritratto il quale, una volta scoperto, mostrerà solo una massa informe di materia tanto l’artista era rimasto ossessionato dalla ricerca del vero e di una pittura incarnata. In Psicologia e Alchimia, invece, Yung ha messo in luce il significato intrinseco del lavoro alchemico come ricerca spirituale e il legame tra alchimia e inconscio. Il processo figurativo di arrivo ad una forma significante, allora, è come il processo alchemico che conduce dal mondo materiale, degli archetipi, alla coscienza di sé.

Uscito su Il Ponte - maggio 2010

La bestia dell'ombra


Il sito ufficiale: Studio d'arte Dusi.


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