Io li odio i nazisti dell’Illinois (cit.)
“Spesso, di notte, mi capita di restare a lungo affacciato alla finestra ad osservare il ponte ferroviario che collega la mia città al resto del mondo e che appare, nel buio, come una lunga linea luminosa sospesa sull’acqua. Tra quelle luci, vicino ad una curava che fa sparire inesorabilmente l’ultimo vagone dei treni che se ne vanno verso la terraferma, posso affermare con sicurezza di aver intravisto, almeno un paio di volte, aggirarsi lo spirito del Blues…”. Suggestiva questa frase di Paolo Ganz, uno dei primi maestri di armonica blues in Italia, per il tentativo di materializzare, attraverso immagini e sensazioni, il soffio vitale di un genere musicale che è molto più di un semplice modo di suonare. Volendo realizzare quindi una sinestesia che colori avrebbe il Blues? Di certo ha il blu poiché il nome deriva dall’espressione “to have the blue devils”, letteralmente: avere i diavoli blu, col significato di “essere triste” (per questo motivo, nella lingua inglese il colore blu viene comunemente associato alla tristezza e all’infelicità); le blue note, le dissonanze, inoltre sono stilemi inconfondibili. Probabilmente ha colori contrastanti e in disaccordo per quelle stonature tipiche, deviazioni dalla scala diatonica occidentale, che caratterizzano la struttura musicale. Sicuramente ha il nero per le sue radici, visto che è nato dai canti delle comunità di schiavi afroamericani nelle piantagioni di cotone negli stati meridionali degli U.S.A. Stefano Mancini tra tutti i colori ha scelto il nero spingendosi oltre la classica ritrattistica di musicisti blues. Il nero di Mancini, infatti, non è ottenuto per addizione, col classico pennello su tela, ma per sottrazione avendo trovato come mezzo espressivo l’acquaforte. Tra le pratiche calcografiche l’acquaforte è tra le più difficili ma anche tra le più suggestive. L’immagine emerge infatti dallo scavo dell’acido sulla lastra preparata, dove sono stati segnati i solchi da far incidere alla morsura. E’ uno scavo in profondità nella materia, quasi un processo alchemico, che ha come risultato, una volta stampato il rame, delle gradazioni di nero più o meno intense a seconda del tempo di azione dei liquidi. I neri che emergono, quindi, sono maggiormente carichi a seconda del lavoro dell’incisore il quale, materialmente, è come se componesse una melodia nel dosare gli acidi e scegliere i tempi; e naturalmente la lastra può avere più stadi e l’immagine sommare più morsure quasi fosse uno spartito con le note che si aggiungono pian piano. Giocare sul bianco e nero è un processo difficile che Mancini domina con grandissima maestria tecnica; e proprio grazie a questa abilità riesce a rendere espressivi i fogli per la grande varietà di effetti (materici, cromatici, pittorici) che riesce a conferire alle immagini. Un’acquaforte intensa, fatta di ombre violente e potenti accordi luminosi e che deve molto alla lezione di Rembrandt e Piranesi. Le opere raffigurano musicisti che hanno fatto la storia del blues; i loro volti emergono dall’oscurità di alcune sezioni e sono scavati come i solchi della lastra che li accoglie; affiorano da un palinsesto materico carico di segni densi e scuri con luminosità inattese ma studiate. Colti nell’atto di cantare o suonare o semplicemente vivere nel tormento creativo della musica, raccontano con le loro espressioni e i loro gesti una miriade di episodi o semplicemente un’unica grande storia segnata da melodie che scorrono così dense sotto pelle da lasciare sintomi visibili. Questi segni e l’intera atmosfera carica di pensierosa tristezza o malinconica gioia è resa magistralmente dall’artista nelle crettature, nella grafia spigolosa, nei giochi di luce e nei contrasti, nei orme minime quasi suonate, nell’assenza di prospettiva dove le immagini (mentali?) si accavallano come su un unico piano. L’intima emozione della musica che si fa disegno quando le righe del pentagramma di sciolgono dalla loro struttura e, vagando libere, formano contorni che le note riempiono di nero.
Tommaso EVANGELISTA
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