Antonio Finelli, classe 1985,
originario di Riccia, vive e lavora tra Roma e Campobasso. Ha iniziato la sua
formazione artistica frequentando nel capoluogo molisano il liceo artistico Manzù
mentre, successivamente, si è trasferito a Roma perfezionando le proprie doti
artistiche presso l’Accademia di Belle Arti. In regione ha recentemente chiuso
una sua personale, “L'Illusione del Corpo”, a cura di Lorenzo Canova e
Piernicola Maria Di Iorio, ospitata alla Galleria ARATRO, che è stata un
successo di pubblico e probabilmente tra le personali più stimolanti viste
ultimamente nell’attivo spazio espositivo universitario. Finelli, che prossimamente
esporrà le proprie opere in rappresentanza del Molise alla mostra “Il Tesoro
d’Italia”, curata da Vittorio Sgarbi in occasione dell’EXPO2015, è certamente
tra gli artisti più interessanti della regione e sicuramente tra i più attivi
nel contesto nazionale. La sua arte, ad una prima lettura dichiaratamente
iperrealista, in effetti nasce da dinamiche ispiratrici e compositive differenti
da quelle della celebre corrente americana, dinamiche molto “tradizionali”,
ovvero europee per quel tentativo di lettura ed indagine dell’umano che ci
deriva da secoli di speculazione filosofica e artistica sull’uomo, anche se una
delle frasi più calzanti circa i suoi ritratti la ritrovo poi in una
dichiarazione di Chuck Close «Il viso di una persona è la carta stradale della
sua vita. Se l’affronta con atteggiamento positivo le rughe sono quelle che si
formano quando si sorride. Allo stesso modo è subito palese quando invece la
vita la si passa imbronciati». I disegni di Finelli sono la “carta stradale”
delle figure che ritrae, ovvero sono le tracce di vita che prendono forma e
segno nelle pieghe e che comunicano esclusivamente per via visiva
l’ispessimento del tempo e la coesione e sovrapposizione di tutte le emozioni
sfuggite al controllo dell’anima. Ci sentiamo di sera, per telefono. Io nella
penombra della mia scrivania ho preparato alcune –forse tante- domande e la
conversazione scivola via piacevole.
Finelli |
Tommaso Evangelista Mimmo Paladino ha parlato, circa la tua arte, di –cito- “ritratti senza
tempo” ma che, a ben guardare, parlano proprio del tempo che scorre e dei segni
che lascia sui corpi. Trovi una contraddizione tra questa idea d’assenza di
tempo e l’invadenza del presente sotto forma di vecchiaia?
Antonio Finelli
Non vi vedo una contraddizione perché questi segni sono aspetti puramente
“tecnici”. Non mi sono mai fossilizzato su un’età ben precisa o non ho voluto
mai sottolineare, o caricare, la vecchiaia anche se questa, giocoforza, è
emersa dalle mie ricerche. Non voglio evidenziare il passaggio del tempo in un
determinato periodo ma indagarlo senza essere condizionato dagli anni. Certo,
Paladino poi lavora molto sull’idea di arcaico e arcaismo e questa idea di
assenza di tempo in lui è molto forte.
T. E. Rimanendo
sull’analisi dei testi critici, invece, Lorenzo Canova, nell’ultimo testo per
la mostra all’ARATRO, scrive di “corpo illusorio” e qui sorge un altro contrasto
tra seduzione e illusionarietà del corpo e il suo estremo e crudo realismo.
Cosa pensi a riguardo?
A. F. L’idea
di corpo illusorio è legato alla nostra civiltà dell’immagine che blocca,
quasi, nel tempo il decadimento. Ma il tempo continua a scorrere, è
inarrestabile, e non permette alle persone di rimanere giovani in eterno. Ci
viene inculcata una bellezza effimera mentre io cerco proprio i segni e le
tracce. Noi siamo padroni del nostro corpo, sostanzialmente, e ci possiamo
permettere di fermare il tempo ma non dobbiamo esserne schiavi.
T. E. La tua
ricerca sembra incentrata sull’ossessione del mutamento del corpo percorso dal
tempo in un contesto, quello odierno, che cerca appunto di preservare
all’infinito la perfezione, o meglio un’edulcorata bellezza. Nel tuo caso può
la bellezza e il sublime –veicolato dall’arte- giungere dal decadimento oppure
il tuo realismo può rischiare di andare in senso opposto, ovvero verso una estetizzazione
cruda del dettaglio e della vecchiaia priva, quindi, di una prospettiva
escatologica?
A. F. Ritengo
che la bellezza del corpo è data dalla saggezza dell’individuo, e che questa
nasca a sua volta dall’esperienza. La crudezza della vecchiaia non è da
intendere in senso negativo perché custodisce una ricchezza che stimola diverse
proprietà estetiche. La vecchiaia è un arricchimento della pelle e non un decadimento,
quindi non cerco la crudezza ma il sublime nel dettaglio.
Finelli |
T. E. Ho letto
in una tua intervista che ti definisci “artista documentatore” per la volontà di
documentare l’evoluzione del corpo. Ci puoi spiegare questa definizione? Tale
evoluzione del corpo che segui nella vecchiaia ritieni sia lecita indagarla
anche nel cosiddetto Transumanesimo, ovvero nel post-umano della performance
che sempre più mira ad alterare i corpi con la tecnologia, disumanizzandoli?
A. F. Per
artista documentatore intendo un lavoro estremamente tecnico di documentazione
di un processo, di uno status dell’individuo che vado ad investigare con il
disegno e la molteplicità dei segni grafici. Il mio discorso, ripeto, è legato
al tempo e il contenuto artificiale o post-umano non appartiene al tempo
naturale e si discosta dalla mia ricerca. Non guardo alla manipolazione
dell’uomo ma al lavoro della natura.
T. E. Sempre
in un’intervista ho letto di un tuo amore giovanile per Giuseppe Penone. Facevi
riferimento in particolare all’opera Svolgere
la propria pelle. In quel lavoro, ricordo, l’artista ripercorreva e
fotografava il proprio corpo attraverso la sovrapposizione di una lastra di
vetro sulla pelle. Il corpo segmentato e la schedatura dell’epidermide sembrano
ritornare nei tuoi ultimi lavori.
A. F. Ho
conosciuto Penone circa sette anni fa a Villa Medici in occasione di una sua
personale. Ben prima avevo approfondito la sua opera durante un esame
all’Accademia. Ci siamo fermati per un po’ a discutere e gli avevo chiesto
proprio di questo lavoro, che tra l’altro non era presente in mostra. Mi aveva
colpito questa volontà di rappresentare i vari segni della pelle mentre
l’ingrandimento del dettaglio faceva perdere un’idea di unità ed evidenziava
una sorta di vibrazione dell’epidermide. Penone, certo, è legato al concettuale
ma posso affermare che quest’opera è stata probabilmente il punto di partenza
per la mia ricerca figurativa. Anche il tentativo odierno di segmentare il
corpo e annullare alcune parti probabilmente deriva da quella sorta di
astrattismo che avevo individuato nella sua opera. Un giorno, passeggiando per
via del Babbuino, ho avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere anche con
Gino Marotta ma più che di arte abbiamo discusso del nostro Molise.
Penone |
T. E. Certamente
la tua arte si situa, ad una prima e superficiale lettura, nel filone
dell’Iperrealismo. L’Iperrealismo, però, non equivale al realismo contemporaneo
inserito nel filone figurativo cristiano bensì nasce negli anni Sessanta negli
U.S.A. in concomitanza con la Pop Art. Non vi è pertanto lo scopo di ritrarre
il mondo ma le fotografie che ritraggono il mondo, gareggiando con gli effetti
di stampa e di pixel. Il carattere di apparente oggettività meccanica e l’idea dell’artista
visto come macchina non fanno che dimostrare l’aspetto consumistico
dell’operazione. Come ti vedi in relazione a tale corrente e qual è il tuo modo
di lavorare?
A. F. I miei
primi lavori sono estremamente iperrealisti anche se non mi è mai importato
nulla di questo movimento, nel senso che non mi ci sono mai relazionato. Anzi,
apprezzando Penone o altri artisti dell’avanguardia romana, ho sempre cercato
una linea diversa di azione e di suggestione. Le mie prime opere sono molto
definite, quest’ultime invece, con l’aggiunta di spazi vuoti e indeterminati,
virano verso il minimale perché l’assenza di dettagli appiattisce l’immagine e
non la rende un’icona “consumistica”. Non sono un iperrealista, indago il
tempo. Non ho mai approfondito inoltre gli aspetti tecnici del movimento. Il
mio lavoro parte, certo, da fotografie che scatto ma che mi servono per capire
il vissuto del soggetto. Inizio quindi dalla selezione dei volti e da una
documentazione fotografica alla quale attingere, ma successivamente disegno e
inizio a chiaroscurare tutto a mano. Gli artisti contemporanei, poi, si
affidano spesse volte a idee facendo realizzare ad altri le proprie opere e
personalmente non condivido molto questo processo. Tengo molto al recupero
della tecnica e al perfezionamento del disegno.
T. E.
Nell’Iperrealismo americano, e penso in particolare a Chuck Close, non vi è una
visione naturalistica del mondo mentre il sovradimensionamento è inteso come
effetto straniante e molto postmoderno che esalta solamente la coseità
dell’oggetto; anche le tue zone bianche, nel disegno, hanno un risultato
disorientante. Come analizzi queste tue pause o fratture temporali che
frammentano la superficie dei corpi e dei volti? Pensi che ciò porterà ad un’evoluzione
della tua ricerca formale?
Close |
A. F. I primi
miei lavori erano incentrati sulla somiglianza dell’individuo e non
sull’epidermide. Ho cercato allora di scomporre l’immagine per focalizzarmi sui
segni, dando quasi un aspetto di maschera ai volti nell’eliminazione delle zone
intorno agli occhi o al naso. Volevo non far riconoscere il soggetto per
spostare l’attenzione dalla conformità al segno. Anche l’idea di “Autoritratto”
nei titoli tende a esaltare non la singola persona bensì i frammenti della superficie,
il passaggio del tempo sulla pelle e il tentativo di parlare, in fondo, sempre
di me stesso attraverso l’arte. Mi interessava inoltre l’effetto alienante e
conturbante che veniva a crearsi con queste zone bianche le quali complicano la
visione e l’approccio all’immagine. E’ una ricerca, per esempio, che è stata
apprezzata molto da Sgarbi, in occasione dell’invito all’EXPO. Il professore ha
sottolineato questa idea frammentaria dei volti che risultava molto più
comunicativa rispetto alla ritrattistica comune. La presenza di spazi che
possono essere confusi tra la luce e il vuoto mi affascina e voglio cercare di
portarla anche nella realizzazione di figure intere. Alcuni esempi sono stati
presentati all’ARATRO ma in futuro, oltre ai singoli volti, voglio insistere
sul corpo nella sua interezza di campo, analizzandolo e disegnandolo sempre con
questi spazi vuoti e chiaroscurati.
Finelli |
E’ passata quasi un’ora dall’inizio della discussione.
Interrompo le domande e parliamo di progetti futuri. Antonio mi confida come,
in fondo, non sia interessato a ridurre la propria arte alla pura vendita e che
non vuole essere condizionato dalle gallerie. Il suo, oltre che un lavoro, è
soprattutto una passione e il tentativo di portare avanti una tradizione
disegnativa tutta italiana lo allontana certamente dal consumismo iperrealista.
In fondo, forse, è proprio tale distacco dalle mode e questo amore per la
matita e il segno a dare spessore –tempo e spazio- alla sua opera.
Finelli |
Tommaso Evangelista
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