Riproponiamo l’intervista ad Antonio Pettinicchi, pubblicata nel catalogo "I dipinti su La Divina Commedia" (Palladino Editore) che raccoglie le pitture del Maestro esposte nella grande mostra ospitata alla Pinacoteca Dinamica di Campobasso nel marzo-aprile 2002. (su Primonumero)
Campobasso. A quando risalgono le pitture su carta ispirate alla Commedia?
Più o meno l’intero ciclo è stato terminato in quattro anni, soprattutto nel biennio ’85-’86. Le tavole sono state iniziate, abbandonate temporaneamente, riprese, rifatte, buttate. Non si è trattato di un lavoro fatto di getto.
Lo spunto nacque da una rilettura di Dante, o Dante fu il necessario approdo di una sua meditazione sui temi dell’eternità e dell’aldilà?
Non ho riletto Dante prima di affrontare le pitture. Dante era parte di me da quando l’avevo studiato a scuola. Ma questo è stato un bene: se avessi riletto Dante a ridosso del lavoro, credo che sarei stato meno libero, avrei sentito l’istinto di essergli più fedele.
Quali tavole sono state composte per prime?
È andata così. All’inizio mi sono cimentato con l’Inferno e il Liceo dove insegnavo ha allestito subito una mostra. Poi mi è venuta voglia di continuare su quella scia e ho dipinto anche le altre due cantiche. Avevo già messo nell’Inferno personaggi legati alla lussuria, l’avidità, l’ira: sono gli aspetti che ho trovato più interessanti. Una personaggio che ho amato rappresentare è stato Gerione. L’ho dipinto come una biscia dalla figura umana dai tanti occhi. In realtà volevo raffigurare l’uomo che vuole tenere in mano le redini di tutto, avido di soldi e potere, con quegli occhi che vedono ogni cosa, se tu lavori, se sei fermo, gli occhi che spiano. Del Purgatorio invece mi hanno affascinato maggiormente le situazioni umane, terrene, come gli incontri con Casella il cantore e con quelli che piangono e dicono di volere piangere, perché in quel momento hanno bisogno di farlo. Mi piacevano quei penitenti che vogliono piangere, piuttosto che parlare, che desiderano diventare anime in tutto e per tutto, e andarsene via…
La vera novità, per quanto riguarda i personaggi, è stata però il Paradiso. Contrariamente a Dante, che è riuscito più suggestivo e potente nell’Inferno, gli aspetti più originali della sua Divina Commedia sono in quel Paradiso degli artisti e degli umili, dove volano i poveri per essere consolati: madri con bambini, persone con zappe o strumenti musicali in mano e berretti in testa, con bicchieri e tazze accanto a loro, fino a Gesù Cristo che spezza il pane…
Nel Paradiso mi sono sbizzarrito. Mi stava particolarmente a cuore inserire nei luoghi della beatitudine non i santi, che già c’erano, ma la gente comune, quegli uomini e donne che io consideravo martiri. I miei beati del popolo li ho posti accanto a poeti, pittori, musicisti. Lo meritavano, il martirio l’avevano sopportato davvero. Quella famiglia del Codacchio, per esempio, che arrivava nella mia Lucito per elemosinare un tozzo di pane, un po’ di olio e un pezzo di lardo. Raccattavano alla festa di San Giuseppe tutto quello che potevano, mettevano tutto dentro. Si accontentavano perché avevano forza morale e spirituale. Sopravvivevano, nient’altro. Ho fatto beati i coltivatori col bidente insieme ai rivoluzionari: Marat e Masaniello, uno innamorato della giustizia la cui lotta alla fine non fu capita: come accade sempre, del resto, a quelli che si occupano di queste cose.
C’è un personaggio che vola in cielo col trombone in mano. È Persichillo. Era un suonatore di trombone che non aveva pari. Non aveva studiato al Conservatorio, era autodidatta, si era formato ascoltando suonatori di bombardino. Quando soffiava nello strumento si sentiva a tre chilometri, aveva una potenza di fiato e un accordo favolosi. Il suo non era un suono “inutile”, non so se riesco a spiegarmi. Sapeva fare emozionare. Quando vedo un quadro di Caravaggio, io provo sollievo. Apprezzo la vita. Una tela di Van Gogh, di Gauguin, rivela l’interiorità di uomini che hanno un’aspirazione, una visione superiore. È come se essi hanno, dentro il sangue, Dio. Sono dei “protetti” da Dio. Quando leggi Leopardi, in quelle parole c’è tutto. Caravaggio e Leopardi sono santi o no? Questi artisti sono stati traforati dal Padreterno. Le sinfonie di Mahler danno i brividi. “Gianni Schicchi” e la “Bohème” di Puccini, la storia della zimarra venduta al banco dei pegni per comprare le medicine alla tisica Mimì… Quando ascolti quel canto capisci che c’è gente trapassata da Dio. Significa che lì dentro c’è la mano di Dio. E allo stesso modo Dio è nei contadini, cioè in quei personaggi che io dipingo e che non sono solo contadini, ma così li chiamano e va bene lo stesso... La loro resistenza, la loro capacità di vivere rivela la presenza di una forza superiore che li abita. È uno sbocco naturale, per loro, il Paradiso.
Secondo la legge del contrappasso?
Già. Ricordo uno storpio, che se ne stava sempre vicino ad una cartolibreria nel centro di Campobasso a chiedere l’elemosina. Anche lui va in cielo, fugge e fa finalmente quello che non ha potuto fare sulla faccia della terra…
Ma nel Paradiso di Pettinicchi non mancano neppure i personaggi danteschi in senso stretto.
San Bonaventura, San Francesco, un uomo vicino a noi, che si accontentava del pane e dell’acqua. I mistici, che entrano ed escono dall’aria, mentre l’aria entra ed esce da loro, nello spazio infinito, quindi in Dio.
Lei in una lettera a un critico ha scritto: “Sono attaccato alla mia terra e agli uomini che ci stanno e cerco nel mio lavoro di farli parlare. Nelle cose che mi stanno davanti c’è il reale, il surreale e l’essenziale. Questi pochi uomini liberi li amo; ne condivido le angosce, le sconfitte, le pesanti rassegnazioni e l’attesa della fine. Questa visione l’avevo già quando giravo a piedi per queste terre. Ora sono più accanito a considerare le vicende umane di questi luoghi per trarne, per quanto posso, gli echi e le risonanze tragiche che possiedono”. Di anni ne sono passati altri 17, dall’85. È ancora vivo, il senso di questa ricerca dolorosa, per Antonio Pettinicchi?
Non è propriamente una visione dolorosa. Perché in questa gente c’è la vita, e la vita supera il dolore. Il catalogo della mia prossima antologica si intitolerà “Penitenti in attesa”. Tutti noi sulla terra siamo penitenti, alcuni sono più penitenti di tutti gli altri: e a quelli io cerco di dare la vita. Le figure che rappresento escono da me dopo che io gli ho posto in testa l’aureola: sono per lo più uomini tritati, che hanno sofferto ingiustizie enormi, ma hanno resistito fin quando hanno potuto.
L’ingiustizia nei confronti del mondo che lei ha amato è un dato immodificabile?
Quelli che governano hanno studiato i filosofi, Dante, Manzoni, Leopardi. Sono credenti, vanno a messa. Sono colti. Da loro gli uomini si aspettano qualcosa, ma loro sono sordi. Vorremmo aspettarci gioia e invece alla fine, sulla terra, siamo tutti nemici.
Quali sono state le tappe principali della sua carriera di pittore? Come è iniziato tutto e cosa ha significato per lei il lungo contatto con la terra molisana e la città di Campobasso in particolare?
Bisogna partire dalla scuola. Mio padre, prima di iscriverci all’Istituto magistrale, ci aveva mandato alla scuole industriali. C’era un esame di ammissione e noi non sapevamo nulla. A Lucito si mangiava e si beveva, nient’altro. Avevo dodici anni, quando arrivai a Campobasso. Andavo bene in Disegno. In un giorno di giugno mi arrivò una lettera della scuola per gli “Agonali” di disegno, le gare della scuola fascista. Mio padre mi proibì di andarci, mia madre si oppose alla sua decisione, mi preparò una frittata, mi fece andare a letto presto e a mezzanotte mi svegliò per la partenza. Arrivai a Campobasso alle 7.30, dopo 35 chilometri a piedi. Facevo Lucito-Campobasso sempre a piedi, anche quando avevamo giorni di vacanza per neve. Andavo e tornavo da Lucito senza mezzi, con la neve alta. Era una vita da poveraccio, ma era bella perché ero pieno di vigoria fisica. Poi finii all’Istituto Magistrale. Ero un tipo timoroso, me ne stavo nascosto all’ultimo banco, non parlavo. Abitavo nei pressi del passaggio a livello insieme a mio fratello: io cucinavo e lui rassettava. Una mattina - mi alzavo prestissimo - avevo visto un’alba e la ritrassi sulla lavagna coi gessetti colorati. Ci misi dieci minuti, più o meno: allora l’orario non era così rigido fra un’ora e l’altra, si parlava, passava del tempo. Il professore di Disegno, che si chiamava Trivisonno, entrò in classe e chiese: “Chi ha fatto questo disegno?”. Io, naturalmente, tacevo. I compagni mi indicarono. Il professore allora disse: “Tu in questa scuola non ci devi stare, devi fare l’artista”. Da allora cominciò ad aiutarmi, mettendomi 10 nella sua materia. Ma mio padre non volle saperne, si impuntò, dovevo continuare e terminare gli studi da maestro. In realtà nelle altre materie andavo piuttosto maluccio. Però Trivisonno mi fece frequentare il suo studio per un po’, mi fece capire tante cose, era coltissimo. Poi feci il Liceo Artistico, privatamente, a Napoli. Acquisii la padronanza del disegno raffigurando le mani e i piedi dei contadini di Lucito. A Napoli l’ambiente era diverso da quello del mio paese. Stavamo soli, io e mio fratello, sempre io a cucinare e lui a rassettare. Anche a Napoli feci incontri giusti, con professori che mi volevano bene. Si può dire che l’Accademia di Belle Arti mi liberò. Quando andai lì, ero pavido. Durante gli esercizi di riproduzione avevo paura nel maneggiare il pennello. Poi il professore Emilio Notte mi si avvicinò e mi disse: “Afferra il pennello all’estremità superiore e butta colore, con libertà assoluta, senza paura”. Io non avevo un soldo in tasca, mai. Mai una lira. Erano tempi difficili, ma rifarei quella vita con entusiasmo. Abitavamo in uno stanzino, avevamo solo una piccola spiritiera, su cui preparavamo per lo più maccheroni e frittata, frittata e maccheroni. Per mesi. Mio fratello studiava ingegneria e portava i conti, studiavamo. Queste sono le cose belle che io ricordo, tutto il resto - Dante, anche la pittura stessa - è marginale rispetto alla vita, alla vita che uno ha fatto. Il professore di incisione mi portava le lastre di zinco nuove o mi faceva lavorare sul retro di lastre già usate. A Napoli finalmente potevo studiare in biblioteche ricchissime, a Campobasso non esistevano biblioteche con libri di storia dell’arte illustrati, o a colori. Ricordo questo problema delle fotografie in bianco e nero. Non ci si capiva niente, è chiaro. Quando mi accostai a Gauguin, Cezanne, quando a Milano vidi nel ’50 tutto Van Gogh, a Brera Tintoretto che mi sconvolse, poi Tiziano, fu meraviglioso. Un momento importante fu la partecipazione alla Biennale internazionale di Venezia, che funzionava per accettazione, non per inviti come adesso. C’era una commissione di critici e pittori che decideva chi avrebbe partecipato e chi no. Io ero tornato a Lucito, avevo comprato il torchio per le incisioni, sempre grazie ai soldi di mia madre che per accontentarmi e mettere da parte qualcosa vendeva lenzuola. Mio padre continuava ad essere contrario: “Che devi fare, tu? il pittore?” Mandai delle acqueforti, un gruppo di acqueforti. Su 6000-7000 opere ne selezionarono 300, fra cui le mie. Quando arrivò la lettera da Venezia, andai a farmi un quarto di vino. Tutto qua. Ero contento, ma anche allora ero distaccato da quello che ruotava intorno al mondo dell’arte. Tutti i miei cataloghi li ho persi, li perdo in continuazione, non sono bravo a raccogliere e ordinare le cose che mi riguardano. Non ci tengo. E quando devo trovare una cosa, sono sicuro che non troverò nulla.
Perché decise di tornare in Molise?
Ho avuto più possibilità di restarmene lontano. Mi chiesero di fare l’assistente al Liceo artistico di Napoli. Rifiutai, anche se adesso rimpiango quella decisione. Ebbi dei guai in famiglia, e contemporaneamente il posto qui nella scuola. Avevo da pensare a vari problemi. Ripeto: rispetto alla vita, tutto sembra una stupidaggine, qualsiasi altra scelta passa in secondo piano.
Come non si può parlare della Divina Commedia senza Dio, così non possiamo parlare di un artista contemporaneo che ha lavorato sui temi e le metafore dell’aldilà cristiano senza interrogarci su come funziona o ha funzionato il rapporto tra Pettinicchi e Dio.
Durante la vita da studente ho sofferto, sia a Campobasso che a Napoli. Qualche volta mia madre riusciva a spedirci un po’ di carne da Lucito, altrimenti fagioli e peperoni fritti, e uova. Cataste di gusci coprivano la casa, non li buttavamo neppure. Dio significa grandiosità, immensità. Noi significhiamo piccolezza. La nostra vita significa piccolezza. L’immensità ci copre, ci assorbe. Io credo. Da sempre. E credo proprio perché parto da questa piccolezza. Una figura religiosa a cui sono molto legato è la Madonna. Quando penso a lei intensamente avverto ancora oggi come dei rumori. Ti racconto un episodio. Una volta, nei pressi delle Quercigliole, dove c’è una cappellina, mi ero fermato a pregare la Madre di Dio. Feci proprio questo pensiero: se mi sente, deve comparire un serpente. Nello stesso istante ne passarono due. Mi si drizzarono i capelli in testa ed ebbi paura. Non dovevo aver paura, oggi che ci penso capisco che ho fatto un grave errore. Avrei dovuto restare lì, invece fuggii…
Lei ha dipinto un mondo spesso torchiato dalla sofferenza. Con il passare del tempo gli uomini e la società soffrono di più o di meno?
Questo non lo so: se ne occupa la filosofia. Ma posso dire che per me l’uomo della Divina Commedia è un uomo scalfito, un uomo che si decompone. È per questo che su alcuni soggetti continuo a metterci l’aureola. La materia di molti uomini, la materia, i muscoli, se ne va. La visione dell’uomo è drammatica. Non è propriamente una visione tragica dell’esistenza. È una visione drammatica. È diverso. Gli uomini che mi interessano artisticamente sono gonfi di spirito, dentro, hanno sofferto, la loro spiritualità è aumentata, mentre il corpo si liquefa. È questa l’immagine dell’uomo che ho.
Campobasso, che è il centro e il simbolo di tutto il Molise, è radicalmente cambiata rispetto al passato. In bene o in male?
Direi in bene. Non posso fare a meno di pensare al benessere materiale, alle cose, alla tecnologia. Carne, pesce, cibo. Ma in fondo non so se questo è un fatto positivo o meno. Siamo coperti di cose, però io non so il “dentro” delle persone com’è: io le persone le vedo cadenti. Forse mi sbaglio, sono io ad essere cadente e poiché riproduco sempre me stesso nelle pitture - come se in ciò che dipingo facessi solo autoritratti che non si somigliano - le vedo cadenti. Non so rispondere.
Il maestro Pettinicchi ha detto che non ama fare filosofia…
No, no, stavo scherzando. Io sono un ottimo filosofo. Su questo si può stare tranquilli…
… ma, oggi come oggi, è possibile per un artista lanciare ancora un messaggio positivo a quelli che verranno?
Io dico semplicemente una cosa: il motore di tutto è il lavoro. Artista o macellaio, il lavoro in sé ti costruisce dentro. È la base di tutto, qualunque lavoro. Purché fatto senza lagnarsi.
L’etica del lavoro?
L’etica del lavoro.
Le piace parlare più della vita, che dell’arte, vero?
Esatto. Quando si arriva a una certa soglia non posso più rispondere, perché il “dentro” mi si sfiata. E non posso permetterlo. Il “dentro” deve essere forte. Se io parlo troppo, mi si sgonfia l’anima, è come diventare un’altra persona, perdi energia. Ci sono cose che non puoi comunicare, vanno tenute esclusivamente per te. Gli altri, se sanno leggere, leggono. Questa mia Divina Commedia è una lettura, no? Non dimenticherò mai quel critico che veniva a vedere le mostre e passava quasi correndo davanti ai quadri dando un’occhiata distratta. Parlare troppo intorno alle cose a volte non aiuta. Bisogna saper leggere, i libri come i quadri. Tu che ne dici, professore? Va bene, così come è andata?
Certamente.
Benissimo. Allora abbiamo finito…
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