L’arte contemporanea è
relativa.
L’occasione della Settima
Giornata del Contemporaneo promossa dall’Amaci e alla quale aderisce anche
l’Officina Solare è un’ottima opportunità per proporre all’attenzione del
pubblico le opere della galleria, opere che visualizzano un cammino fatto di
mostre ed eventi come anche un impegno costante nella valorizzazione del
contemporaneo in una realtà, il Molise, dove è quasi assente la volontà di
creare un sistema virtuoso dell’arte e dove in ogni attività sembra quasi di
ripartire da zero. E’ questa anche l’occasione per riflettere sullo stato
dell’arte in regione e non solo poiché se si organizza una giornata del
contemporaneo significherà anche che a livello nazionale le cose non sono tutte
rosa e fiori. Dopo il boom di musei d’arte contemporanea negli anni ‘90, dai
fantasiosi acronimi, si è registrato un costante calo di investimenti
sostituiti da sempre più invasive campagne di marketing per far fronte alla
scarsa presa sul pubblico. Direttori e curatori, da idealisti e intellettuali,
sono diventati cortigiani del sistema promuovendo l’ovvio per la ricerca del
profitto mentre i musei sono diventati affari di famiglia (anche politica) in
una rete di potere e legami che dai luoghi espositivi arriva alle aste e ai
collezionisti. Pochi giorni fa Luca Beatrice, su Il Giornale, criticava
giustamente la quantità di fondi che si stanno spendendo per la grande rassegna
sull’Arte Povera che, diventata ormai “pura
accademia travestita da concettuale per la smania di pochi collezionisti”[1],
non attrae più il pubblico mentre attrae ancora gli speculatori e allora giù
con rassegne strapagate e con Rivoli che, da più importante polo del
contemporaneo in Italia, sembra diventato un circolo di famiglia sotto la guida
di Andrea Bellini e Beatrice Merz.
Ma gli esempi sarebbero tantissimi: dalla
crisi del MADRE a Napoli al livellamento estetico operato dal Padiglione Italia
di Sgarbi, dal crollo delle galleria al programma insignificante del MAXXI che sembra
vivere esclusivamente in funzione della propria architettura. E se ci spostiamo
alle Fondazioni il clima non cambia. Come scrive sempre Beatrice “L’estensione
della famiglia nel mondo dell’arte si chiama Fondazione. Ovvero: ho un bel
nome, metto su un progetto culturale e me lo pagate voi. All’opposto di ciò che
accade in America, dove i ricchi finanziano l’arte, in Italia i milionari
chiedono soldi pubblici per foraggiare le loro imprese cui frega a pochi, ma se
qualcuno fa osservare che non ce n’è più si prende insulti o una mutanda in
faccia”[2]. Il momento è delicato e apparentemente senza vie di
fuga; del resto anche l’arte moderna non se la passa bene: “Il ministero dei Beni culturali ha definito
un “evento di portata storica” la spedizione a Cuba di un ‘Caravaggio’ che non
è di Caravaggio; un alto prelato italiano sta cercando di spedire la Madonna di
san Giorgio di Giotto a Mosca per ‘impreziosire’ le celebrazioni legate
all’edizione dei testi di un concilio dell’VIII secolo; la Velata di Raffaello
parteciperà al Ballo del Giglio del 2011, in un albergo di Montecarlo; i
Baccanali Ludovisi di Tiziano saranno esposti ad Arcore, nella sala del bunga
bunga, per evidenti affinità iconografiche. Una sola di queste notizie è falsa:
ed è l’ultima. Ma è falsa solo perché i Baccanali appartengono al Prado, che è
un museo serio di un paese serio”[3]. Si
tratta dell’incipit dell’articolo dello storico dell’arte Tomaso Montanari che,
dalle colonne del Fatto Quotidiano, condanna l’ennesima operazione commerciale
e pubblicitaria, il prestito della Velata di Raffaello, messa in piedi da una
politica che ha perso da tempo il concetto di tutela e considera il capolavoro,
che per diritto fa parte della comunità, una sorta di ambasciatore da far
viaggiare in giro per eventi mondani.
“E l’idea di noleggiare a
privati le opere d’arte che appartengono alla collettività rappresenta
eloquentemente il tono morale e il livello culturale dell’Italia del tardo
berlusconismo: al punto che l’uomo simbolo di questa mirabile congiuntura,
l’onorevole Domenico Scilipoti , ha trasformato questa idea in una proposta di
legge per cui “le opere d’arte, inclusi reperti archeologici e similari,
possono essere offerti in noleggio per un periodo prefissato di dieci anni
tramite asta pubblica da gestire per via telematica”. L’obiettivo sarebbe
quello di “valorizzare le opere d’arte che giacciono inutilizzate o
sottoutilizzate in depositi museali o in altre sedi, promuovendo, attraverso il
loro noleggio per un periodo decennale, l’arte e la cultura italiane nel mondo
e, allo stesso tempo, contribuendo a ridurre il debito pubblico”… E non si sa
davvero se sia più madornale la bestialità di pensare che le opere d’arte si
debbano “utilizzare”; quella di considerare i depositi dei musei non quei
magazzini di sapere e di storia che sono, ma cantine polverose e inutili;
oppure l’idea che uno partecipi a un’asta telematica e poi si veda consegnare a
casa – non so – una Immacolata in marmo del Seicento, un polittico a fondo oro
del Trecento o un set di vasi greci. Ma ancora: uno potrebbe noleggiare un
fonte battesimale romanico per il battesimo del nipotino, un’alcova barocca per
la prima notte di nozze, una scultura del Novecento per un cocktail in giardino
(No Arturo Martini, no party). Ma, al di là del folklore , ciò che nella
proposta di legge Scilipoti, si legge benissimo è il principio di fondo:
privatizzare, selvaggiamente, il patrimonio artistico di questo Paese”[4].
Chiusa parentesi sul moderno non si può non notare come assistiamo ad una
situazione degenerata col contemporaneo che da una parte cerca di tenere in
vita istituzioni, concentrando quei pochi fondi ancora a disposizione, e
dall’altra appare sempre più incapace di comunicare, vuoto e autoreferenziale,
tenuto in vita esclusivamente dall’unicità dell’evento che sembra proporre,
mentre poi tutto finisce alla chiusura del vernissage.
Jean Clair, storico dell’arte
francese e stimato intellettuale, aveva anticipato la catastrofe dell’arte nel
testo “Critica della modernità” ed oggi, dal limite del post-moderno, torna su
quelle considerazioni con il libro da poco uscito in Francia “L' hiver de la
culture” (“L’inverno della cultura”). Nel
“nostro” inverno, la cultura non è
più spazio di una religiosità laica, né strumento per “rendere il mondo abitabile”, conducendo verso “una trascendenza al di là delle parole”. A prevalere è una logica
mercantile. Clair spiega: “Siamo stati
riportati a terra, tra paesi desertificati”. Dunque, addio cultura. “Resta solo il culturale: che è simulacro,
imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione,
vaporizzazione”. Il passaggio dalla
cultura al culturale (o culturame) è di fatto una riduzione sostanziale, è
perdita dei fondamenti a vantaggio di una piattezza massificata, è l’abbandono
della lotta e del tentativo di creare sistema. La “religione” dell’arte che ha
smarrito la pratica trova in un finto culto di maniera il proprio status; le
mostre blockbuster sono affollate come supermercati, le Biennali somigliano a
discariche, il museo diventa una marca di lusso e si quota in borsa, l’arte è
ridotta ad evento per attirare le folle, gli artisti studiano strategie di
comunicazione e marketing, il mercato crea il valore dell’opera[5],
i giudizi della critica sono ininfluenti in una realtà dominata dagli
investimenti speculativi e il pubblico si illude di partecipare alla Storia
mentre condivide solo divertimento. L’arte contemporanea è un “evento” spesso
inutile, di forte impatto, certo, ma che poco ha a che fare con l’idea di
cultura ed in questo si dimostra molto più conservatrice di tante altre forme
di comunicazione. Sarebbe opportuno un diverso atteggiamento meno ipocrita, uno
scavo intelligente in quel sottobosco magmatico e spesso semisconosciuto che la
contemporaneità ci mette a disposizione, un’analisi oggettiva dei dati partendo
dal territorio. l’Officina Solare nella realtà molisana, ma in generale tutte
quelle associazioni che operano nelle zone marginali e di confine, ha dalla sua
la volontà di uscire fuori dal sistema; non cerca l’evento ma tenta di creare insiemi
muovendosi in quel limite, spesse volte difficile da rinvenire, tra
dilettantismo e progettualità artistica autentica promuovendo l’artista in
quanto uomo.
Nella
misura in cui il valore, che oggi non è mai valore estetico, dovrebbe emergere
dalla lunga durata il ruolo di una galleria, piccola o grande che sia, dovrebbe
essere esclusivamente quello della ricerca, della documentazione e
dell’indagine capillare; se per valore, però, intendiamo una “performance
economica” dell’oggetto, frutto di operazioni speculative e passaggi, più o
meno velati, in mostre-evento l’opera diventa prodotto e con essa anche lo
spazio diventa creatore di merce. E così mentre si preparano eventi i musei
diventano luoghi di transito di opere in giro per il mondo, i collezionisti si
scambiano favori con le istituzioni, dagli storici dell’arte si passa ai
curatori detentori, spesse volte, di una conoscenza solo procedurale e mai
speculativa, il pubblico si smarrisce.
Attratto dalla curiosità, incapace di guardare e comprendere le opere del
passato (diventate ormai sistemi chiusi in assenza di risorse per la
valorizzazione, mentre la Storia dell’Arte pian paino sparisce dalle materie
scolastiche), pensa che sia più facile relazionarsi con l’opera contemporanea
poiché illuso di essere lui il centro di un fenomeno creativo e comunicativo.
Se è lo sguardo che crea l’opera ciò elimina il senso di colpa derivato dalla
non comprensione ed annulla ogni sforzo interpretativo. Nel semplice guardare
perdiamo la nostra autonomia, nel semplice commercio speculativo l’opera
smarrisce la sua aura, nel vuoto esporre il museo diventa un’industria che
trasforma l’arte in spettacolo. Oggi, dovunque, ritornando a Clair "prevale
sempre la logica dell'evento spettacolare"; in nome del denaro l'arte
è ridotta ad evento per attivare le folle, ma "non è questo il modo di democratizzare l'arte, questo è solo
massificazione" dannosa che potrebbe essere evitata diffondendo e
intensificando lo studio della "Storia
dell'arte nelle scuole, affinché tutti abbiano gli strumenti culturali per
comprendere le opere…l'opera esige, sempre, una sintonizzazione culturale,
senza la quale risulta incomprensibile”. Ma, aggiunge opportunamente il
critico francese "anche il mercato
dell'arte prima o poi rischia di crollare. Un crac metterà fine alla bolla
speculativa”. E forse la speranza sta proprio in questa crisi in quanto il
capitalismo si è rivelato non solo ingiusto ma anche inefficace ed effimero: non solo seleziona
proposte discutibili da un punto di vista della qualità, poiché si serve di un
sistema schiavo del profitto e della raccomandazione, non solo è costretto ad
“affittare” i propri capolavori a privati senza consapevolezza, non solo
sminuisce la cultura riducendola a prodotto, ma non produce nemmeno ricchezza,
non garantisce posti di lavoro ai professionisti del settore, mortifica l’arte,
distrugge la tradizione e la Storia. Siamo del resto in un momento di svolta epocale: la recessione, se non
condurrà ad una folle crisi del debito con relativo impoverimento generale e
repressione sociale, porterà ad una revisione di tutto il sistema economico
neoliberista, e anche la fisica non sta tanto bene. Col recente superamento
della velocità della luce, infatti, l’universo (e anche l’arte) perderebbe
molti dei suoi attuali vincoli. Sarebbe addirittura possibile violare il
tempo che non avrebbe più una struttura lineare ma deformata: superando infatti
la velocità della luce secondo la legge di Einstein un corpo arriverebbe in un
punto B prima di essere partito in un punto A. Questo implicherebbe anche
fenomeni come la sovrapposizione di piani spaziotemporali diversi o che ciò che
è stato non svanisce nel nulla e ciò che sarà esiste già.
Ed implicherebbe
anche che io, dopo aver scritto tutta questa predica, mi ritrovi a curare una
Biennale con le solite opere commerciali per i soliti collezionisti e
speculatori.
Tommaso EVANGELISTA
[1] L.
Beatrice, Con l’arte povera si diventa ricchi
e potenti, in “Il Giornale”, 17 agosto 2011.
[2] Cit.
[3]
T. Montanari, Velata o Velina? Raffaello,
un escort al ballo di Montecarlo, in “Il Fatto Quotidiano”, 25 settembre
2011.
[4] Cit.
[5]
A riguardo riporto un brano tratto da Dialogue
avec les morts, autobiografia di Clair “L’asparago dipinto da Manet e la cipolla
dipinta da Chardin non hanno prezzo. Non nel senso di un prezzo esorbitante,
come le fragole in inverno, ma senza prezzo. L’aneddoto di Manet e di Ephroussi
si riferisce appunto a questa impossibilità di assegnare un prezzo all’arte. A
Ephroussi che chiede il prezzo di un quadro che raffigura un mazzo di asparagi,
Manet risponde che costa ottocento franchi. Ephroussi rifiuta; non paga mai
meno di mille franchi per un quadro. Manet rifiuta a sua volta: non ne vuole
più di ottocento. Ephroussi insiste e gli mette in mano mille franchi. Poco
dopo, Manet invia al generoso collezionista un piccolo quadro di un asparago,
tutto solo, come un commerciante, all’ultimo minuto, al mercato, aggiunge un pomodoro
o una mela al cesto della donna di casa. L’arte di oggi funziona sul principio
opposto: ha un prezzo, spesso smisurato, ma è priva di valore”.
sono d'accordo con il tuo l'articolo , ottima analisi,chiara e di riflessione attenta e minuziosa, non mi sembra una predica, ma una verità.
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