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giovedì 11 luglio 2013

La sindrome di Lilliput - per una visione trasversale del piccolo formato


La sindrome di Lilliput

Per una visione trasversale del “piccolo formato”

Note a margine della Quinta Biennale del Piccolo Formato a cura di Rino Cardone presso la galleria Officina Solare di Termoli

La grandezza dell’arte non dipende dalle dimensioni dell’opera. E’ una frase scontata, quasi banale nella sua evidenza, ma oggi sembra vacillare. Il caso più famoso è quello della Gioconda. Il visitatore “tipo” del Louvre subisce file chilometriche per vedere anche solo per un secondo l’opera di Leonardo e, abituato all’utilizzo “pop” dell’immagine presentata su ogni supporto e in ogni grandezza, rimane irrimediabilmente deluso dagli appena 77 x 35 centimetri. Non coglie la profondità della ricerca pittorica, lo studio della prospettiva, la teoria degli “affetti” e la dinamica dei moti dell’animo: avvezzo a pensare in termini quantitativi, e non qualitativi, considera una beffa, quasi un affronto, quel piccolo formato perché impedisce la fruizione consumistica. In mezzo a tanti turisti l’opera, protetta da uno spesso vetro e isolata nella parete, non si vede, è un francobollo, e per fotografarla occorre sgomitare. Una volta realizzato uno scatto che non rivedrà mai il compito del visitatore “tipo” è terminato, e potrà andare alla ricerca di altre banalità turistiche; ma questo è un altro discorso che riguarda la storia del gusto. Per rimanere con l’esempio di Leonardo, pensando al suo Uomo vitruviano, si può affermare come l’arte sia un microcosmo che ci rimanda al macrocosmo, e che questo concetto sia raffigurato in un disegno di appena trenta centimetri ci fa riflettere sull’importanza del messaggio e del pensiero. Oggi l’arte contemporanea gioca molto sull’eccesso dimensionale, sull’esagerazione delle misure, sull’ingrandimento a dismisura di un particolare, sulla banalizzazione dell’invisibile e del celato col risultato che il messaggio principale, e unico, è dato esclusivamente dalla forma dell’emittente. Il messaggio dell’opera è l’opera stessa, o meglio la sua dimensione. C’è anche un altro problema. Più grande e titanica è l’opera, minore è il nostro grado di attenzione, poiché l’eccesso della visione, in mancanza di un sostrato teorico e tecnico sul quale ragionare, viene a decadere in un attimo. L’esasperazione del visibile contemporaneo non richiama il sublime bensì l’immondo. Le opere di piccole dimensioni, invece, ci obbligano ad avere una maggiore cautela, ci costringono a focalizzare lo sguardo e l’attenzione, ma anche ad affinare l’immaginazione e ad ampliare la nostra capacità di fruizione. Per il pensiero classico e rinascimentale la categoria di piccolo, ovvero equilibrato nella misura e nelle dimensioni, veniva a legarsi con l’armonia, il rigore, l’eleganza stilistica e la forza morale, in quanto era una sfida intellettuale col quale il pittore doveva cimentarsi. E nel cimento l’artista che risolveva la sfida con pregnanza di sintesi era ritenuto un maestro. Anche perché sostanzialmente il valore del piccolo formato, della “piccolezza” e minuzia della pittura, è dato sopratutto dall’abilità dell’artista come ci ricorda il famoso aneddoto narrato da Plinio il Vecchio.Apelle volle conoscere personalmente Protogene recandosi presso la sua casa a Rodi. Giunto a destinazione vi trovò un’anziana che l'avvertì della momentanea assenza del pittore. Apelle si diresse allora al cavalletto e prese un pennello con il quale dipinse una linea colorata estremamente fine; quando Protogene ritornò esaminando la linea capì che soltanto Apelle avrebbe potuto fare un lavoro così perfetto; disegnò una linea ancora più fine sopra la prima e chiese alla sua serva di mostrarla all'ospite se fosse ritornato. Quando Apelle tornò e gli fu mostrata la risposta di Protogene, dipinse con un terzo colore una linea ancora più fine fra le prime due, non lasciando posto per un'altra. Nel vedere questo, Protogene ammise la sconfitta e uscì per incontrare Apelle. «L’arte non riproduce il visibile, crea il visibile» diceva Klee: l’arte è effettivamente un microcosmo che trova giustificazione esclusivamente in se stesso e non dipende dalla grandezza e dalla misura. Se l’uomo è misura di tutte le cose, anche l’arte è tale? E’ qual è la misura dell’arte? Può l’infinito condensarsi in una forma e una sintesi dischiudere un mondo? Claudio Magris scrivendo dell’incredibile raccolta di Leopoldo Kostoris, che nel corso della vita aveva accumulato una collezione di più di 300 opere di piccolissimo formato (massimo 15 x 18 centimetri) di tutti i più grandi pittori contemporanei, utilizzava l’espressione «universo tascabile». In effetti un’opera di limitate dimensioni è proprio un universo in espansione, nella nostra mente, è un illogico dimensionale e un paradosso. E’ un qualcosa di simile alla meraviglia di Gulliver che si risveglia prigioniero di una razza di uomini alti sei pollici, i lillipuziani, in un mondo che gli si stringe attorno obbligandolo ad acuire la vista e a sviluppare i sensi. L’arte è una specie di sindrome di Lilliput che richiede la più alta forma di concentrazione per cogliere le infinite varianti e variabili interne. Come Micromega, il filosofo di Sirio, che utilizzando un diamante come microscopio con molta fatica si accorse sulla Terra dell’esistenza degli uomini, creature tanto piccole ma in grado di comunicare e produrre pensieri profondi, così per comprendere lo spessore di queste opere bisogna affinare lo sguardo, purificarlo, renderlo limpido come la superficie di un diamante. Solo abbandonando usurate categorie spaziali e temporali si può comprendere quel «processo di riduzione della realtà immaginifica» che non significa vuota sintesi bensì eccesso creativo. Del resto la virtù si cela sempre nei dettagli minimi, come ci ricorda, da La galeria, il buon vecchio Giambattista Marino: «Il buon è sempre poco per destino, / sempre nel poco gran valor si serra. / E quali in sé maggior virtù consepe, / un stronzo di somaro o un gran di pepe?».

 (Tommaso Evangelista)

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