Mercoledì 27 aprile 2011 alle ore 18,00 presso lo Studio Arte Fuori Centro di Roma, via Ercole Bombelli 22, si inaugura la personale di Paolo Borrelli, Messaggi minatori a cura di Silvia Valente. L'esposizione rimarrà aperta fino al 13 maggio, secondo il seguente orario: dal martedì al venerdì dalle 17,00 alle 20,00.
di Silvia Valente
A dispetto della titolazione questa è una mostra il cui intento principale si muove su dati diametralmente opposti al suo appellativo. L’insidia del messaggio artistico si trasla sui toni dell’invito, della riflessione e del libero pensiero, goduto nella quiete e nella lentezza di una ponderazione tutta al personale.
Con il suo lavoro Paolo Borrelli riapre una questione che, personalmente, ritengo fondamentale se d’arte vogliamo parlare (specialmente in ambito contemporaneo), ovvero il ruolo dell’immaginazione e l’utilizzo che di tale pratica si compie.
Merito dell’artista non è, evidentemente, il suo personale impiego di essa, bensì l’astuzia con la quale sia riuscito a ricondurre il problema ai destinatari delle sue opere: gli spettatori.
Compito indiscusso del critico d’arte (ma anche del curatore) è quello di riuscire ad accompagnare il fruitore nella decodificazione delle opere d’arte, fornendo una chiave di lettura che non vada ad influenzare la visione stessa del pubblico cui si rivolge. L’assioma così dettato lo ritengo inattuabile per diverse ragioni, ma non nego la necessità deontologica di tendere verso un atteggiamento che si avvicini il più possibile ad esso.
I Messaggi Minatori dell’artista non si svelano anticipatamente ma, per via enigmatica, invitano l’osservatore ad una pratica nuova, spingendolo ad uno sguardo libero da archetipi che li guidi verso una direzione più emozionale che celebrale, in una logica interpretativa del tutto autonoma.
Il “gioco” ha dunque inizio e l’ intento di andare oltre determinate logiche consolidate di critica e decodificazione sembra rafforzarsi andando a confluire in un unico importante obiettivo: godere dell’opera d’arte lontano da depistaggi critici, lasciando libero il fruitore di leggere autonomamente i lavori, viverli in una esperienza “solitaria” dall’inizio alla fine, libero da condizionamenti e dotato dell’unico vero ed efficace mezzo a disposizione: la sua immaginazione.
In questo gioco a spirale si inserisce in maniera indispensabile una nuova chiave di lettura filtrata dall’immaginario dell’uomo – critico d’arte, svincolata dalle logiche “accademiche” e più vicina al coinvolgimento personale e diretto.
Sembrano paradossali analisi di questo genere, eppure i prototipi intellettivi di cui siamo provvisti ci hanno condotti verso un sempre maggiore allontanamento da considerazioni puramente emozionali dinanzi alla visione di un’opera d’arte. Fortunatamente il nostro “esperimento” ci è facilitato dall’oggetto in questione e comincerei nel descrivere i lavori dell’artista con la prima definizione che sento di poter dare.
Bello.
Credo che una delle principali cause del così scarso impiego di questo termine in materia artistica sia dettata dalla paura. Abbiamo, negli anni, caricato questa parola di significati e responsabilità tali da spaventarci anche solo nella sua enunciazione, e se trasliamo il tutto sul piano artistico, in generale, e contemporaneo, nello specifico, il discorso tende a complicarsi. Interessante, originale, provocatorio, inusuale. Ma bello non lo si sente quasi mai.
Le opere di Paolo Borrelli sono belle perché procura piacere guardarle: sono raffinate, cariche di equilibrio cromatico e significativo, curate nel dettaglio della rappresentazione, presentate allo spettatore con precisione dei particolari e calibrate nel loro insieme. Le immagini scelte dall’artista e assemblate in collages elegantissimi raccontano storie visionarie di un uomo che non ha fatto altro se non fermarsi a pensare. E nella pratica delle associazioni di pensiero, ogni frame riconduce a qualcosa di diverso, di nuovo, in un vortice fantasioso capace di riqualificare e decontestualizzare schegge di epoche e accadimenti che si spogliano del loro significato di origine per assumerne di nuovi. L’artista ci presenta il suo “Atlante della memoria” (per citare Aby Warburg) e ci invita a guardare a quelle stesse immagini non con gli occhi della storia, né tantomeno con lo sguardo di chi le ha assemblate, ma semplicemente con i nostri occhi e con i nostri rimandi ad esperienze personali. Ogni Elegia si trasla su binari differenti come, di volta in volta, sono differenti le menti che immagazzinano le forme.
“Io non sono semplicemente quell’essere puntiforme che si orienta rispetto al punto geometrico da dove si coglie la prospettiva. Indubbiamente, in fondo al mio occhio si dipinge l’immagine. Certo, l’immagine è nel mio occhio. Ma io, io sono nell’immagine”. Così diceva Jacques Lacan a proposito dell’accesa questione sullo sguardo, sulla percezione dell’oggetto, artistico o meno che sia, ribaltando completamente i ruoli di soggetto ed oggetto, interscambiandoli e ponendo al centro della diatriba il valore della visione.
Il tema della visione-punto di vista nelle opere di Borrelli supera le dinamiche rappresentative (seppur affrontate in maniera esaustiva) a approda su piani decisamente politico-sociali. Lo spettatore è naturalmente condotto verso riflessioni di tale carattere perché a suggerirlo sono gli stessi soggetti raffigurati, ma è assente ogni forzatura di genere in quanto l’intento dell’autore non è assolutamente riconducibile alla volontà di fornire una definizione compiuta; al contrario invita a una riflessione della quale accenna il solo incipit.
Il suo Tentativo di ricordare è una esplicita esortazione a comporre rappresentazioni intellettive, alterandole e approfondendole, commutandole in qualcosa di diverso, emancipandosi da qualsivoglia legge o vincolo che sia, praticando una pura riflessione autosufficiente dei sensi. In una parola: Immaginazione.
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