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sabato 17 novembre 2012

Addio a Marotta, l'artista che amava i bestiari colorati

Una piccola rassegna stampa in ricordo di Gino Marotta. Bell'articolo di Luca Beatrice su Il Giornale e una sentita pagina di Antonio Picariello


Proprio nell'ultimo numero, ancora in edicola, il mensile Arte gli ha dedicato la copertina. E fino al 27 gennaio prossimo le sue sculture in plastica colorata, che rappresentano animali esotici e palme rigogliose, sono esposte alla Gnam di Roma, divenuta da tempo la sua città. Gino Marotta se ne è andato così, all'improvviso, al culmine di un giusto processo di rivalutazione dell'opera, cominciato con l'inserimento dei lavori storici nella mostra «Italics» a Palazzo Grassi nel 2008; quindi la personale al Macro di Roma nel 2010, e buoni risultati d'asta con prezzi superiori ai 30mila euro in costante crescita.Marotta è nato a Campobasso nel 1935 ma presto lascia il Molise per trasferirsi nella Capitale dove per prima cosa va a trovare il maestro De Chirico. Comincia a esporre molto giovane nel 1957 e all'inizio viene collegato dalla critica alla sensibilità pop dell'epoca. Gli piacciono molto le immagini, passione che condivide con Pino Pacali, ironico e inesausto sperimentatore attratto dai materiali nuovi, simbolo della leggerezza e della tecnologia dei primi anni '60. È stato uno dei rari esempi di artista trasversale e curioso, che si interessa di cinema e teatro, prestando le proprie invenzioni a scopo scenografico. Tra le collaborazioni più interessanti si ricordano quella con John Houston per alcune scene della Bibbia e in diversi lavori di Carmelo Bene, Nostra signora dei Turchi, e Homellette for Hamlet (premio Ubu per la miglior scenografia nel 1988). Altra curiosità sono i programmi radiofonici in diverse trasmissioni di cultura che ha scritto e condotto.
Il suo curriculum vanta presenze importanti nelle maggiori rassegne italiane, dalla Quadriennale di Roma alla Biennale di Venezia (sala personale nel 1984); ha insegnato decorazione all'Accademia di Roma e ha diretto quella dell'Aquila.
Forse troppo eclettico per i suoi tempi, non imparentabile al rigore poverista, Gino Marotta risulta addirittura più moderno e intrigante oggi, che i confini tra le arti sono meno definiti, rispetto a quando era un giovane promettente. Autore di diverse installazioni ambientali, per sottolineare il rapporto necessario con la natura, verrà ricordato soprattutto per il suo bestiario fantastico tridimensionale, tra trasparenze e shilouette ritagliate nei metacrilati colorati. Era una persona affabile e disponibile che mancherà molto all'ambiente dell'arte romana, dov'era stimato e apprezzato.




Alessandra Mammì - Un saluto (a Gino Marotta)

Gino Marotta vinse il concorso per il soffitto del palazzo della Rai. Appalto milionario all’epoca (fine anni Cinquanta) che era una bella epoca.

In Rai lavoravano sia Pascali che Marotta. Pascali faceva le scenografie per l’Odissea Del Quartetto Cetra, e nella grotta di Polifemo sperimentava quelle invenzioni geniali che poi troviamo nei ponti di liane fatti di pagliette d’acciaio da cucina o negli spazzoloni che diventano bachi da setola. E dalle maestranze Rai impara a mescolare il blu di metilene e fare il mare.

Marotta più scientifco sperimenta i nuovi materiali industriali, lavora con gli spazi pubblici (la grande vetrata per il Centro Congressi di Bergamo, le decorazioni per la sede dell’Acea di Roma e la facciata della Sinagoga di Livorno) coniuga arti visive e nascente industrial design, fa piccole lampade e grandi vetrate e in nome del verbo ” dal cucchiaio alla città” progetta gli undicimila metri quadri di soffitto per viale Mazzini.

Marotta ( come anche Pascali) era un uomo ottimista in un’ epoca ottimista, un grande costruttore di immagini che usa il metacrilato per costruire un Giardino dell’ Eden. Quello che ora è alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma in una mostra che Marotta ha appena fatto in tempo a allestire e inaugurare, immettendo nelle sale le sue incursioni di perspex in forma di natura animale erbe foglie….Paradiso terrestre tra i quadri eroici dell’Ottocento

Marotta disse : “Attraverso lo specifico delle nuove tecnologie ho provato a rifare l’inventario del mondo. La mia natura, i miei animali, le mie piante artificiali sono l’armamentario mitopoietico del mondo. Ho fatto un simulacro della memoria, il simulacro di qualcosa che tra un po’ di tempo non ci sarà più.

Profezia. Non c’è più il desiderio e il bisogno di disegnare il mondo e disegnarlo migliore, non ci sono più gli artisti che lavorano nella tv pubblica, non c’è più quella frenetica sperimentazione di materie a cui dare nuove forme, non c’è più gioco e dal gioco invenzione, non c’è più quel’inconsciente e meraviglioso ottimismo e e da ieri non c’è più Gino Marotta.


A Lucio Fontana e Gino Marotta piacevano le salsicce di mio padre, di Giancarlo Politi su Flash Art aprile 2010




Nell’ambito del “Festival Carmelo Bene”, da questa sera alle 17,30 a Otranto, nel Castello aragonese, sono esposti i sei dipinti realizzati da Gino Marotta per Carmelo Bene oltre che scritti autografi, foto originali e oggetti a lui appartenuti. All’artista che conosciamo dai nostri anni romani di metà Sessanta, in un affollarsi di fisionomie e rapporti: Pascali, Bene, Patroni Griffi, Caputo, Kusterman e Nanni, Marchegiani, Fusco, Ceroli, Nuele, e di cui rammentiamo, ben oltre le tante rassegne da “Bianco+Bianco” a il “Teatro delle Mostre”, le sculture-costumi e le scene per il film “Salomè” di Carmelo Bene presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1972 e le ulteriori collaborazioni per “Nostra Signora dei Turchi” e “Hommelette for Hamlet”, abbiamo chiesto come e quando è nato il rapporto con Carmelo. 

«Nella Roma degli anni Sessanta e Settanta, alcuni finissimi intellettuali rendevano possibile un grande esercizio di libertà in un clima bacchettone e intransigente che emarginava le persone dotate di maggiore talento. Mi incuriosì la leggenda metropolitana che segnalava la presenza di uno strano teatrante che recitava nelle cantine e stravolgeva qualsiasi testo mettesse in scena. Volli verificare e al primo incontro ebbi la percezione che si trattava di una grande personalità, di un artista più rigoroso che stravagante e pienamente padrone delle sue eccezionali qualità». 

E su quali linee si è sviluppato nel tempo? «Occuparci ciascuno dei problemi dell’altro fu assolutamente naturale e questo interesse cresceva ogni volta che Carmelo parlava di teatro e io di pittura. Ricordo con emozionata nostalgia le serate trascorse insieme a montare e smontare congegni spettacolari che sono diventati dei riferimenti obbligati del teatro moderno: irripetibili cortocircuiti di intelligenze». 

Negli anni Settanta qual’era, a Roma, il dialogo tra le arti visive e il teatro e il cinema? «Innanzi tutto il sodalizio tra me e Carmelo, e poi altri casi significativi, anche se molto differenti, come l’allestimento del “Riccardo III” di Luca Ronconi con le scene di Mario Ceroli. In quegli anni dirigevo l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, e Carmelo aveva la cattedra di Regia. Sono rimaste memorabili le sue lezioni su Eliogabalo e la ricerca su la Baigneuse di Ingres che coinvolse quasi tutta l’Accademia». 

Cosa hanno significato, per te, “Nostra Signora dei Turchi” e “Salomè”? «Salomè e Nostra Signora dei Turchi sono due casi di dirompente modernità dovuti al coinvolgimento di due personalità che hanno messo in comune tutti i materiali che la sperimentazione nei singoli campi forniva loro, nel tentativo di ampliare i margini delle possibilità espressive». 

E quale il senso del Premio Ubu, con feritoti per “Hommelette for Hamlet”? «Il Premio Ubu mi ha fatto evidentemente piacere, anche perchè una giuria altamente qualificata si era accorta della importanza in quest’opera della dimensione figurativa che assume un ruolo drammaturgico». La mostra è curata da Raffaella Baracchi Bene e da Salomè Bene con il sostegno della Provincia di Lecce.



Le delusioni in Molise da Il Bene Comune

Mi presento come una redattrice del Bene Comune e gli chiedo cos'è successo, perché ad un certo punto di lui qui non si è più saputo nulla; mi risponde un uomo rattristato, che afferma di non aver più alcuna intenzione di venire nella nostra regione. Mi parla della frustrazione provata nel tentativo di cooperare con l'Amministrazione Iorio per stimolare e vivificare la vita culturale di quella che ormai, deluso, non ha più desiderio di rivendicare come la sua terra d'origine. La cosa che lo ha ferito di più è stata la consapevolezza che per Cultura si pensa al più alla promozione, come se le azioni messe in campo dovessero essere al massimo il traino per la vendita delle scamorze; quello che più lo ha addolorato è aver capito che dell'Arte a chi governa non importa assolutamente niente, che tutto è e deve essere funzionale al mantenimento di un potere abitualmente piccolo e quotidiano.Su tutte le offese ricevute, e qui allarga la sua delusione, il suo sentirsi tradito e misconosciuto proprio nella sua terra anche dagli esponenti dello scenario culturale, la peggiore è stato il trattamento derisorio, aggressivo e spesso di aperto boicottaggio riservato all'opera scultorea chiamata "Amore" che ha creato per Campobasso e che è stata posizionata nella Villetta dei Cannoni.


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